Francesca Albanese - Rania Hammad
Gentile Signora Nirenstein, Questa lettera aperta le giunge da due donne che da anni osservano i suoi tentativi di impegno sulla scena nazionale, come aspirante figura politica e intellettuale, incluso su delicate questioni di politica estera. Ieri ci siamo imbattute nella presentazione del suo libro Jewish Life Matters (Giuntina, 2021) che, sul sito dell’editore, viene accompagnata da queste (presumibilmente sue) parole:
“La mia rabbia è nutrita dal dolore: ho già spiegato in lungo e in largo come l’antisemitismo sia diventato odio per Israele, ma questa è la prima volta che vedo i miei stessi amici cadere in preda − lentamente e senza accorgersene, perché sono persone per bene – di un alieno spirito antisemita, uno spirito che si è fatto strada in loro proprio in nome delle buone cose in cui credono: i diritti umani”.
Partiamo da un dato di fatto. Lei, Signora Nirenstein, viene da Gilo. Lei vive, per gran parte del tempo, a Gilo. Gilo è una colonia israeliana che permette a 30.000 coloni (ebrei) di occupare illegalmente il territorio su cui dovrebbe esistere lo Stato di Palestina. Stato che non può materializzarsi proprio a causa di gente come Lei che lo occupa illegalmente, con la violenza che ne consegue, succhiandone le risorse - terra, acqua, materie prime - che spettano di diritto ai palestinesi.
Il diritto internazionale, Signora Nirestein, non è un’opinione. Ai sensi di tale diritto, le colonie sono un crimine di guerra, su cui tra l’altro la Corte Penale Internazionale ha aperto un’investigazione. Le colonie costituiscono inoltre una violazione gravissima dei diritti umani: questi o sono di tutti o non sono di nessuno, ed è per questo che sulla copertina del suo libro, l’uso de ‘i diritti umani’ ci sembra un ossimoro.
Siccome Lei stessa é una colona, non ci sorprende trovarLa sovente indaffarata a difendere ciecamente la politica di Israele, senza considerazione per le implicazioni legali, economiche e politiche sulla vita di 6,8 milioni di ‘arabi’, due terzi dei quali senza cittadinanza perché sotto occupazione militare. Da colona, Signora Nirestein, la sua non è una voce imparziale, e pertanto non ha autorevolezza morale per giudicare la delicata situazione in Israele/Palestina. E secondo noi non ha neanche il diritto di sgranare gli occhi e provare rabbia e dolore perché ‘persone per bene’ condannano le politiche dello Stato di Israele che lei così ardentemente difende.
Ma proviamo ad andare più a fondo. Da ciò che ci è dato intendere, la rabbia e il dolore Le sono provocati dai suoi amici che piano piano hanno preso coscienza del fatto che non è normale che Israele occupi illegalmente, e di fatto prevenga con la forza, la costituzione di uno stato palestinese in ciò che rimane della Palestina storica su cui - va ricordato - 73 anni fa Israele si proclamò Stato. Ci è dato intendere che i suoi amici possano ritenere anormale, e anche ingiusto, ciò che Israele fa in quel che resta della Palestina storica, un mero 22 per cento della terra che fu ‘la Palestina’ fino al 1948 (con tanto di passaporti riconosciuti dal governo britannico), di cui - illegalmente - dal 1967 ad oggi Israele controlla terra, risorse, vite.
Ci sembra anche di intellegere, tra le righe della sua rabbia e del suo dolore, che forse ai suoi amici possa parere ingiusto che ad Israele sia concesso ciò che è assolutamente vietato dalla legge internazionale: privare un popolo dell’autodeterminazione, che è un diritto umano collettivo assoluto e inalienabile, e governarlo con la forza della legge militare (corti militari, anche per i minori) per quasi 60 anni; tentare di annetterne il territorio con la forza mentre se ne distruggono case, uliveti e persino stalle e pollai; discriminare milioni di persone sulla base dell’etnia (cosa che Israele fa per legge dal 1948: vedi le denunce della professoressa Nurit Peled, tra le altre) e dominarli con le armi dell’umiliazione e la violenza. Forse i suoi amici, proprio perché ‘persone per bene’, hanno capito che gli israeliani hanno il sacrosanto diritto di vivere in pace e sicurezza, non più e non meno degli altri a questo mondo: incluso i/le Palestinesi.
Da ‘studiosa attenta dell’antisemitismo’ ed ‘esperta della realtà mediorientale’, come il suo editore declama, Lei dovrebbe sapere che la realtà mediorientale è stata una salvezza per gli ebrei. Dal medioevo, quello che oggi chiamiamo Medio Oriente ha accolto intere comunità di ebrei in fuga da discriminazione, persecuzioni ed eccidi in quella che oggi è la liberalissima Europa. La Palestina, negli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo, si è materializzata come la terra promessa per il popolo ebraico tormentato dall’antisemitismo europeo. Ma – e questo è un fatto documentato da storici che proprio antisemiti non sono (leggi: Benny Morris) – questo è accaduto a spese di oltre un milione di Arabi di Palestina che l’abitavano, e che avevano costruito le sue decine di bellissime città, da Akka a Jaffa, da Nazaret a Nablus, assieme al mezzo migliaio di villaggi che furono rasi al suolo dal marzo 1948 in poi.
Prima della creazione dello Stato di Israele (15 maggio 1948) 400.000 Arabi di Palestina erano già scappati per avere salva la vita mentre la guerra civile tripartita imperversava: britannici che cercavano di portare a termine il mandato onusiano, guerriglia sionista (ebrei in Palestina) efficacemente armata (la gran parte d’origine europea, visto che fino alla fine del XIX secolo gli ebrei in Palestina non superavano il 10 per cento della popolazione) e guerriglia arabo-palestinese indebolita dalle violente repressioni britanniche, soprattutto quella del 1936-39. Altri 350.000 scapparono dopo che la prima guerra arabo-israeliana ebbe inizio dopo il 15 maggio 1948, molti di loro caricati su camionette sotto la minaccia di essere fucilati seduta stante dalle brigate sioniste. Tutto ciò che fu tolto (e non ancora restituito) agli Arabi di Palestina – case, beni mobili, terre, cittadinanza - fu dato agli ebrei che da quel momento non cessarono di arrivare dall’Europa e dal resto del mondo arabo. Lo stato di Israele è nato così, con un peccato originale: quello di aver derubato gli Arabi di Palestina della loro terra, delle loro case, della loro unità di popolo per garantire l’esistenza di uno stato ebraico, come tale solo per ebrei.
Questo è il punto da cui Israeliani e Palestinesi (la maggior parte sparsi per il mondo ‘orfani di una patria’ come li defìnì Edward Said) dovrebbero ripartire: riconoscere la storia e riuscire, assieme, a voltare pagina correggendo gli errori del passato. Ma per questo serve conoscenza dei fatti ed un approccio intellettualmente onesto e guidato da semplice umanità. Ed è questo che a Lei manca, Signora Nireinstein, semplicemente per una questione di conflitto d’interessi.
Nei suoi scritti, nei suoi interventi, Lei confonde continuamente le acque, mischia fascismo, nazismo, antisemitismo, jihadismo, ma non può ignorare che quello palestinese è un movimento di liberazione nazionale. Il popolo palestinese ha il diritto di esistere e come tale anche di resistere all’oppressione: anche questo dice il diritto internazionale. Nel suo libro Lei contesta questa realtà, definendo coloro che sostengono le ragioni del popolo palestinese ad avere diritti e giustizia come un “mondo alla rovescia” in cui Israele viene ingiustamente giudicato uno stato di apartheid da squadroni di antisemiti. La invitiamo vivamente a leggere pagina dopo pagina lo straziante rapporto di Human Rights Watch, che documenta e argomenta in modo sistematico come Israele si sia evoluto in uno stato che in tanti oggi, incluso ebrei d’oltreoceano e israeliani, giudicano ‘apartheid’. Il popolo palestinese non è la ‘dittatura islamista e oscurantista’ di Hamas a Gaza. Il popolo palestinese è un popolo derubato, violato, frammentato, indebolito: ma è un popolo. Che esiste e resiste. Perché le loro vite contano.
Ed è dinanzi a questo che il suo contributo al dibattito sotto la rubrica Jewish Lives Matter, suona quantomai inopportuno e di cattivo gusto. Questa sigla si appropria indebitamente e pretestuosamente del diffuso Black Lives Matter, un movimento sociale diffuso negli Stati Uniti e oggi in tutto il mondo, nato dalle proteste contro la brutalità e la violenza razziale contro una parte del popolo americano (quello afroamericano e le altre minoranze di origini ‘non caucasiche’), condotte spesso nell’impunità totale dai ‘caucasici’ (euroamericani, o ‘bianchi’). Sostenere questo movimento non significa negare i diritti altrui, dei ‘non neri’, per essere specifici, ma partire dalla presa di coscienza di un problema che va capito e corretto: quello della discriminazione che colpisce specificamente i neri d’America assieme alle altre minoranze.
Anche in Palestina c’è un problema di violenza etnico-politica, aggravata dall’esistenza dell’anacronistico modello coloniale portato innanzi da Israele: quello che mira alla conquista di ‘Giudea e Samaria’ (Cisgiordania) e al mantenimento della superiorità demografica degli ebrei, sottomettendo o scacciando il suo popolo indigeno così come si è fatto con i tre quarti degli Arabi della Palestina storica pre-maggio 1948; e contro questo si levano le voci critiche, tra cui probabilmente quelle dei suoi amici ‘persone per bene’. Per cui il suo ‘Jewish Lives Matter’ suona né più né meno come il White Lives Matter starnazzato dai conservatori americani bianchi. Certo che le vite di tutti contano. Ma così come i fratelli e le sorelle afroamericani/e chiedono ai loro compatrioti bianchi: che senso ha rimarcare che i diritti sono di tutti, quando il godimento dei diritti tra bianchi e neri (come tra ebrei e arabi, in Israele e Palestina occupata) é impari? White Lives Matter é la riaffermazione di un privilegio che non si vuole perdere, così come il suo Jewish Lives Matter.
In ciò che diciamo non c’è nessun insidioso antisemitismo, Signora Nirenstein. Quello che Giovanni Vernetti assieme a lei chiama ‘odio per Israele’ è solo avversità all’impunità che Israele personifica oggi nella scena internazionale. A furia di bollare e denunciare come ‘antisemitismo’ qualsiasi critica allo Stato di Israele e cosa lo accompagna, Lei e quelli come Lei stanno erodendo uno dei pilastri delle società occidentali: la libertà d’espressione e di critica. E questo non glielo perdoniamo. Quindi, se venisse in mente a Lei o ad altri di tacciarci di antisemitismo, lo ribadiamo nel modo più perentorio possibile: nessuna di noi due serba rancore o odio nei confronti del popolo ebraico (e la invitiamo a leggere la definizione di antisemitismo messa a punto da centinaia di studiosi ebrei d’Israele e di altre parti del mondo per capire a che parte di mondo apparteniamo noi). Al contrario, confidiamo profondamente nell’intelligenza e nel senso di giustizia di tanti ebrei, israeliani e non, per porre fine all’abominio che lo Stato di Israele oggi, nel 2021, incarna a danno dei Palestinesi e, in modo oscuro e più cerebrale, a danno dei suoi stessi cittadini ebrei. Capire e risolvere questo sarà la vera liberazione del popolo ebraico.
Francesca Albanese e Rania Hammad