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L’avanzata comunista in Russia – alcuni punti d’analisi

Mimmo Sardella

Il risultato elettorale del Partito comunista della Federazione Russa (Kprf) rappresenta una crescita importante rispetto al voto del 2016: con il 18,93% ottenuto lo scorso fine settimana, i comunisti migliorano il 13% di cinque anni fa, e il gruppo parlamentare passa da 42 a 57 deputati. Un risultato che avrebbe potuto essere ancora migliore, se non vi fosse stato lo scandalo del voto elettronico a Mosca, i cui risultati ancora non sono stati ufficialmente proclamati, ma già sono conteggiati nel computo fornito dal Comitato elettorale centrale. Fino alle 14 di lunedì scorso, infatti, i candidati non appartenenti a Russia Unita, partito di Vladimir Putin, erano avanti in 9 dei 15 collegi in cui è divisa la capitale russa, e di questi 9, almeno 5 vedevano gli esponenti del Kprf davanti, anche con distacchi significativi. È il caso di Mikhail Lobanov, docente di matematica dell’Università statale di Mosca, una vita nel sindacato, attivo nei movimenti sociali della capitale, che nel suo collegio, il 197, dove concorreva come indipendente nella lista del Kprf, precedeva di ben 10.000 voti il noto propagandista Evgeny Popov, giornalista famoso per la sua faziosità spesso sopra le righe in favore del governo. Dopo che son stati conteggiati i voti elettronici, Lobanov si è trovato indietro di 20.000 voti, un risultato che lascia molti interrogativi sulla correttezza dello svolgimento delle operazioni elettorali via smartphone e computer. L’affermazione del Kprf avrebbe potuto quindi essere ben più grande, spinta anche da una serie di convergenze sui suoi candidati: un ruolo significativo l’ha sicuramente avuto il Voto intelligente (Umnoe golosovanie) promosso da Alexey Navalny, che indicava di sostenere ben 137 candidati comunisti su 225 mandati disponibili, ma sarebbe riduttivo indicare solo in questo fatto il successo del Kprf. Ad avere i risultati più significativi son stati quei candidati espressione di lotte e mobilitazioni avvenute nel corso degli ultimi anni, e l’immagine di una frazione comunista che ha votato contro alcuni dei principali provvedimenti portati alla Duma, tra cui la riforma delle pensioni, ha sicuramente dato l’idea di una forza comunque all’opposizione del corso putiniano. Vi è comunque una differenziazione all’interno del partito su quale linea avere verso il Cremlino, tra una parte, radunata attorno al leader storico Gennady Zyuganov, più sensibile alle pressioni dell’Amministrazione presidenziale e ai legami con le autorità, e un’altra, che vede in Valery Rakshin, molto attenta alle mobilitazioni e alle contraddizioni nella società russa. Spesso quest’ultima ala non ha sempre ben chiaro come muoversi, come dimostrano gli interventi di Rakshin nelle manifestazioni dei no-vax russi, ma la chiarezza programmatica e ideologica non è sempre ben presente nelle posizioni del Kprf, dove il leader storico da anni sostiene la Chiesa ortodossa russa come pilastro della stabilità della società del paese. Sarebbe però un errore attribuire, come nel caso di Navalny, a no-vax e ortodossi tutto il successo dei comunisti alle elezioni, quando si tratta dell’espressione di un crescente sentimento di ostilità verso le manovre del Cremlino. Le letture fornite da alcuni esponenti italiani sono sempre condizionate da un’ottica troppo legata agli scenari della politica nazionale, senza tener conto delle enormi differenze tra Roma e Mosca. Si legge che l’avanzata del Kprf possa essere in grado di spostare a sinistra l’asse del Cremlino e di condizionare in senso sociale la politica del governo russo, affermazioni che ignorano le particolarità del sistema di potere costruito prima negli anni Novanta da Boris Eltsin e poi consolidatosi in vent’anni di presidenza Putin. Il governo russo non è responsabile di fronte alla Duma, e solo la riforma costituzionale del 2020 ha introdotto un parziale passaggio di fiducia nel parlamento, limitato dal veto presidenziale. Ancora più illusoria è l’idea di un possibile condizionamento dell’affermazione comunista verso Putin, visto che l’istituto presidenziale in Russia non è legato a passaggi parlamentari o a rapporti collegiali con il governo, quindi non è chiaro come il gruppo comunista alla Duma possa spingere il Cremlino verso una politica all’insegna della giustizia sociale. Anche se al momento non vi sono state contestazioni significative di piazza verso il risultato delle elezioni, il rimodellamento del voto secondo i desiderata delle autorità introduce ulteriori elementi di scontento in una società che ha profondi motivi di insoddisfazione su singole questioni. Il Cremlino teme la politicizzazione della società, la presenza di motivi di scontro in grado di scuotere dalla passività e dall’atomizzazione i cittadini. La stretta repressiva degli ultimi mesi verso la stampa e le misure economiche all’insegna dell’austerity non possono però passare inosservate a lungo, e l’utilizzo del voto elettronico come strumento per avere risultati graditi al potere rappresenta una ulteriore prova di forza di un sistema in fondo profondamente insicuro di sé.