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La destra israeliana ha provato a gestire il conflitto. Bennett vuole “ridurlo”

Meron Rapoport*

La coalizione di governo israeliana comprende oggi due partiti saldamente di destra, Yamina e New Hope, guidati da due uomini che credono nell’idea di un Grande Israele che si estende dal fiume al mare. Il primo ministro Naftali Bennett è entrato nella scena politica nazionale dopo aver guidato il Yesha Council –l’organizzazione ombrello che si occupa dei bisogni delle colonie in Cisgiordania– e dopo anni di sfida, da destra, a Benjamin Netanyahu e al suo Likud. Il ministro della giustizia ed ex aderente al Likud Gideon Sa’ar, che originariamente avviò il suo percorso politico con Tehiya, un partito ultranazionalista fondato negli anni ’70 del secolo scorso, è sempre stato considerato un falco e un aperto sostenitore dell’annessione. Eppure, alla vigilia del nuovo governo, o forse immediatamente dopo la sua formazione, sia Bennett sia Sa’ar sembravano aver rinunciato all’idea dell’annessione della Cisgiordania, totale o parziale. Hanno invece adottato una diversa strategia: “ridurre il conflitto”. Sa’ar è stato tra i primi nella coalizione ad adottare questa posizione. All’inizio dell’ultima tornata elettorale, mentre era in testa nei sondaggi e sembrava avere una possibilità di battere Netanyahu, Sa’ar ha articolato la sua posizione attraverso la piattaforma del partito New Hope. “Non ci sarà una soluzione permanente che porrà fine al conflitto israelo-palestinese in un futuro prossimo”, si legge nella sezione sulla sicurezza della piattaforma. “Ma possiamo implementare politiche che riducano il conflitto senza compromettere la sicurezza di Israele… [attraverso] il miglioramento delle condizioni dei valichi di frontiera per i lavoratori [palestinesi] usando nuove tecnologie, semplificando il sistema di impiego in Israele, regolando i settori dell’energia e dell’elettricità, ottimizzando l’import ed export palestinese, e molto altro”. Bennett ha atteso sino a che la coalizione fosse formata per dire cose simili. In un’intervista di pochi giorni dopo il giuramento del Governo, Amit Segal, principale corrispondente politico di Channel 12, ha sfidato Bennett sulle sue dichiarazioni passate, in particolare quella in cui il nuovo primo ministro paragonava i Palestinesi a “una spina nel fianco“. “Questa è una dichiarazione che a posteriori cambierei”, ha detto Bennett a Segal. “Veniamo al punto, noi dobbiamo dire la verità. Il conflitto nazionale tra lo Stato di Israele e i Palestinesi non è per il territorio. I Palestinesi non riconoscono la nostra esistenza qui e questo ci accompagnerà molto probabilmente per un po’ di tempo… ma il mio punto di vista in questo contesto è ridurre il conflitto. Ovunque [ci possano essere] più passaggi di frontiere, una qualità di vita migliore, più commercio, più industrie, lo faremo”.

‘Catch-67’

L’uso del termine “ridurre il conflitto” non è casuale. Si dice che Bennett parli regolarmente con il dottor Micah Goodman, l’autore del libro Catch-67: The Left, the Right, and the Legacy of the Six-Day War (Paradosso 67. La sinistra, la destra e l’eredità della guerra dei sei giorni) che è considerato il profeta di questa strategia. In un articolo del 2019 su The Atlantic, Goodman ha sostenuto che la sinistra israeliana non è riuscita a porre fine all’occupazione e a creare uno stato palestinese indipendente, mentre la destra ha fallito nell’attuare l’idea di un Grande Israele. Invece di parlare di porre fine al conflitto oppure continuare lo status quo, conclude, gli Israeliani dovrebbero cercare il modo di “ridurre il conflitto”. Le idee di Goodman hanno anche portato alla fondazione di un’ONG chiamata “Shrinking the Conflict” volta alla promozione di misure specifiche come la semplificazione dei permessi di lavoro palestinese in Israele, l’aumento dell’indipendenza palestinese nell’energia e altro ancora. Non sorprende che queste politiche siano notevolmente simili a quanto scritto nella piattaforma del partito di Sa’ar. Non è facile essere sicuri di quanto queste idee influenzino Bennett e gli altri ministri, e in un certo senso alcune di queste misure si basano sul primo approccio di “pace economica” di Netanyahu. Ma non vi è dubbio che il concetto di Goodman sta dettando il tono. Si ritiene che, nel suo prossimo incontro con il presidente USA Joe Biden, Bennett possa presentare un piano di 120 giorni costruito su questa strategia. La sua decisione di ieri [11 agosto] di approvare permessi di costruzione per 800 unità abitative per i Palestinesi nell’Area C, insieme a 2.000 unità abitative nelle colonie israeliane, potrebbe far parte di questo piano. Si potrebbe ragionevolmente credere che il fatto stesso che persone di destra come Bennett e Sa’ar stiano abbracciando le idee di Goodman derivi da una profonda crisi ideologica della destra israeliana. Dopo oltre 20 anni di dominio quasi ininterrotto, la destra è ampiamente riuscita a cancellare la Linea Verde sia fisicamente sia psicologicamente. Ma al di là di questo risultato non è stata capace di formulare una chiara visione di dove vuole condurre il conflitto o quale soluzione essa offre. Negli ultimi dieci anni, la destra dei coloni e la destra nazionale (guidata da Likud e Shas) hanno coltivato l’idea di “applicare la sovranità ebraica” –ovvero l’annessione e l’apartheid istituzionalizzate– come una sorta di soluzione magica. Ma questa visione è implosa lo scorso anno dopo l’annuncio di Netanyahu degli Accordi di Abramo, proprio quando sembrava che il governo avesse spianato la strada all’annessione de jure grazie ai partiti centristi, alla debolezza politica palestinese e al via libera dell’amministrazione Trump. Vale inoltre la pena notare che solo usando il termine “ridurre il conflitto”, Bennett stesso sta spostando le sue posizioni ammettendo apertamente che la battaglia con i Palestinesi ha di fatto un’influenza significativa sulla vita di Israele. Bennett proviene dalla scuola di pensiero che crede che Israele debba vincere in modo definitivo il conflitto. Due anni fa, per esempio, come capo del partito New Right, promise di “sconfiggere Hamas”, ma ora, come primo ministro, ha mutato il tono da guerrafondaio. Per un uomo come Bennett è quasi un’ammissione di colpa. La decisione di Bennett di allontanarsi dal suo passato di colono integralista è dimostrata anche dalle sue nomine politiche. Mentre la ministra dell’interno Ayelet Shaked, un’alleata politica di lungo corso del primo ministro, ha nominato Yair Hirsch, un residente di un avamposto illegale in Cisgiordania la cui casa è destinata alla demolizione, direttore generale del suo ministero, Bennett sembra preferire individui che non siano identificabili con il campo dei coloni religiosi nel quale è cresciuto. Per esempio, non si sa molto del dottor Eyal Haluta, il nuovo consigliere per la Sicurezza Nazionale di Bennett, ma egli certamente non è identificabile con la destra, a differenza del suo predecessore, Meir Ben Shabbat, che Netanyahu ha efficacemente usato per rafforzare il dominio della destra. La nomina di Mike Herzog, fratello del nuovo presidente Isaac Herzog e per nulla un classico esponente della destra, come ambasciatore israeliano negli Stati Uniti è un ancor più chiaro segno dell’approccio di Bennett.

Un’idea pericolosa

È inutile dire che, malgrado la nuova strategia di Bennett e Sa’ar, il conflitto con i Palestinesi non ha alcuna intenzione di ridursi. Appena prima della formazione del Governo, abbiamo visto una guerra a Gaza, la sanguinosa violenza nelle cosiddette “città miste” israeliane e morti palestinesi per mano di soldati e coloni israeliani in tutta la Cisgiordania. Da quando Bennett ha prestato giuramento come primo ministro il 13 giugno, i soldati hanno ucciso almeno nove palestinesi in Cisgiordania, compresi tre minori e una donna, al ritmo di un palestinese a settimana. Abbracciare l’idea della “riduzione” del conflitto israelo-palestinese non è solo scollegata dalla realtà, è addirittura pericolosa. In primo luogo, diffonde l’assunto che il conflitto sia un fenomeno naturale che esiste in quanto risultato inevitabile della presenza ebraica tra il fiume e il mare, o perché i Palestinesi “non riconoscono la nostra presenza qui”, e perciò non c’è soluzione e il meglio che possiamo fare è minimizzare l’influenza del conflitto. In effetti, l’approccio di Goodman non riguarda la “gestione” del conflitto alla Netanyahu, ma la gestione dell’occupazione. Inoltre, l’idea ignora palesemente il fatto che il “conflitto” stesso è enormemente ineguale. Una parte ha uno stato, un esercito e diritti nazionali e civili, mentre l’altra non ha nulla di tutto questo. Ridurre il conflitto presuppone di conseguenza che lo stato “naturale” della terra sia quello che in modo innato permette privilegi agli ebrei, mentre obbliga i Palestinesi a rimanere in una posizione inferiore all’infinito. Il pericolo sta anche nel fatto che la teoria possa essere ripresa da quelli che, almeno in linea di principio, si oppongono all’occupazione e sostengono l’idea dei due stati ma non credono che sia raggiungibile a breve, come il ministro degli esteri Yair Lapid. “Non è un segreto che io sostengo una soluzione a due stati”, ha detto Lapid al Consiglio Affari Esteri dell’UE durante un incontro a Bruxelles il mese scorso. “Sfortunatamente, non c’è attualmente un piano per farlo… Quel che ora dobbiamo fare è assicurarci che non vengano compiuti passi che impediscano la possibilità di pace in futuro e dobbiamo migliorare la vita dei Palestinesi. Qualsiasi cosa che sia solidaristica, mi troverà a favore. Tutto quel che aumenta l’economia palestinese mi trova favorevole”. Lapid non l’ha detto, ma l’idea di “ridurre il conflitto” è chiaramente alla base di queste osservazioni. Anche il ministro della cooperazione regionale Issawi Freij (Meretz), che non ha alcun interesse a veder continuare l’occupazione, accetta implicitamente questo approccio. “È nostro dovere assicurare la stabilità dell’Autorità Palestinese, anche se mi è chiaro che non ci sarà nessuno Stato palestinese e nessun accordo nei prossimi quattro o cinque anni”, ha detto il mese scorso alla giornalista Lily Galili di Local Call. In assenza di qualsiasi possibilità di soluzione, ha detto, l’unica cosa da fare è migliorare la vita dei Palestinesi. Niente di tutto questo significa che la sinistra non debba cercare di raccogliere i benefici della crisi ideologica che affligge i politici di destra come Bennett e Sa’ar, anche se la crisi deriva dalla loro incapacità di realizzare le loro ambizioni piuttosto che da un cambiamento nei loro valori. La questione è come farlo. Come possiamo sfruttare la debolezza ideologica della destra per rafforzare i Palestinesi e indebolire la supremazia ebraica? Non ci sono risposte semplici, ma è necessario riflettere su questo. *Fonte: Assopacepalestina - http://www.assopacepalestina.org/2021/08/la-destra-israeliana-ha-provato-a-gestire-il-conflitto-bennett-vuole-ridurlo/ Originale: https://www.972mag.com/bennett-saar-goodman-shrinking-conflict/ Traduzione di Elisabetta Valento