di Massimo Congiu
Nell’ottobre del 2015 il PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e Giustizia), partito della destra nazionalista polacca, torna al governo dopo otto anni di opposizione. Da allora, sulla scorta di quanto stava già avvenendo in Ungheria, si impegna a realizzare un controllo sempre più forte di ogni manifestazione della vita pubblica e a modellare il Paese a sua immagine e somiglianza. Il presidente di questa forza politica è Jarosław Kaczyński, fratello gemello di Lech, morto nel 2010 da Capo di Stato, in un incidente aereo insieme ad altre cariche di spicco del Paese. Vinte le elezioni in quell’autunno di sei anni fa, il primo pensiero del leader del PiS va al gemello scomparso in circostanze ritenute per lo meno sospette dai nazionalisti polacchi che vedono in questa sciagura lo zampino di Mosca.
Oltre che dai legami di sangue i due Kaczyński erano uniti da una fede politica condivisa e da un progetto che ora sta a Jarosław portare a compimento. Così, una volta tornato al potere, il PiS sferra un attacco alle libertà fondamentali e dà inizio ad un programma basato sull’erosione degli spazi democratici e sull’indebolimento dell’opposizione.
I risultati di quest’opera non si fanno aspettare: la magistratura e la stampa sono tra i settori più in difficoltà. Nel 2017 esordisce il nuovo regime disciplinare per i giudici del Tribunale Supremo (Sąd Najwyższy) con l’istituzione di una Camera Disciplinare (Izba Dyscyplinarna, ID). La Corte di Giustizia Europea contesta l’assenza di garanzie per ciò che riguarda l’imparzialità e l’indipendenza della ID in quanto composta esclusivamente da magistrati scelti dal Consiglio Nazionale della Magistratura (Krajowa Rada Sądownictwa, KRS) i cui quindici membri vengono eletti dal Sejm, la Camera Bassa del Parlamento polacco. Vedremo che il sistema ha anche fatto del suo meglio per mettere il bavaglio a organi di stampa e intellettuali dissenzienti.
Nel dicembre del 2017 la Commissione europea annuncia di aver dato il via alle procedure necessarie all’applicazione dell’Articolo 7 nei confronti di Varsavia il cui governo è accusato di portare avanti una politica gravemente lesiva dello Stato di diritto. Del resto, la relazione scritta dalla Commissione europea l’anno scorso al termine di osservazioni effettuate per verificare la salute dello Stato di diritto nei Paesi membri confermano le inquietudini legate al caso polacco. In essa si legge infatti che “Le riforme dell'ordinamento giudiziario introdotte in Polonia dal 2015 sono state oggetto di profonde controversie, a livello sia nazionale che dell'UE, e hanno suscitato serie preoccupazioni, molte delle quali persistono. Tali riforme, che hanno ripercussioni sul Tribunale costituzionale, sulla Corte suprema, sui tribunali ordinari, sul Consiglio nazionale della magistratura e sulla procura, hanno aumentato l'influenza del potere esecutivo e del potere legislativo sul sistema giudiziario e hanno quindi indebolito l'indipendenza della magistratura”.
Il documento precisa poi che “Emergono anche preoccupazioni circa l’indipendenza delle principali istituzioni responsabili della prevenzione e della lotta alla corruzione, in particolare se si considera che l’Ufficio centrale anticorruzione è subordinato all’esecutivo e che il ministro della Giustizia svolge contemporaneamente le funzioni di procuratore generale”. Non meno preoccupate le considerazioni riguardanti la libertà del mondo mediatico perché “Risultano in atto misure di salvaguardia per l’autorità di regolamentazione dei media, il Consiglio nazionale di radiodiffusione, ma sono state espresse alcune preoccupazioni in merito alla sua indipendenza”. Inoltre, “il quadro giuridico sulla trasparenza della proprietà dei media non è ugualmente applicabile a tutti gli operatori dei media. Per quanto riguarda la tutela dei giornalisti, resta problematica la criminalizzazione dell’oltraggio a pubblico ufficiale”. È interessante anche il passaggio in cui si afferma che “La Polonia ha una società civile dinamica e forti associazioni professionali di giudici e procuratori che partecipano al dibattito pubblico. Tuttavia, le organizzazioni sono state oggetto di dichiarazioni sfavorevoli da parte dei politici”.
Torniamo un attimo al punto riguardante la libertà di stampa nel Paese. Sul Manifesto dell’11 febbraio scorso, Giuseppe Sedia scrive da Varsavia: “I mezzi di informazione polacchi indipendenti ieri hanno spento la luce. Pagine oscurate e trasmissioni sospese per dire «nie» all’introduzione di un nuovo balzello − fino al 15% dei ricavi − sugli introiti pubblicitari. I 45 firmatari dell’iniziativa «Media senza scelta» temono che il nuovo «contributo alla solidarietà» voluto dal governo della destra populista Diritto e giustizia (PiS) finisca per mettere al tappeto canali tv, radio, carta stampata e portali di informazione lontani dal potere”. L’articolo parla di “ripolonizzazione” dei media, un progetto per il quale, nel mese di dicembre, aveva avuto luogo “l’acquisto di oltre un centinaio di giornali locali del gruppo tedesco Verlagsgruppe Passau da parte di Orlen, gigante energetico polacco a partecipazione statale”. Secondo diversi osservatori la nuova tassa potrebbe provocare un nuovo scontro con Bruxelles.
Il fatto che la Polonia non goda di buona salute in termini di libertà di stampa e di espressione è dimostrato anche dal recente episodio della condanna di due ricercatori e di un giornalista “rei” di aver spiegato cosa succedeva all’epoca dei campi di concentramento nazisti. Come nel caso dell’Ungheria, il sistema attualmente al potere in Polonia si impegna a dar luogo a una rilettura dei fatti storici riguardanti il Paese. Cosicché Varsavia ha affidato la guida dell’Istituto per la Memoria Nazionale di Breslavia a un ex militante neonazista di nome Tomasz Greniuch. Stiamo parlando della più influente istituzione di studi sulla storia moderna e contemporanea polacca.
Negli ultimi mesi dell’anno si è parlato molto di Polonia a causa delle manifestazioni popolari contro il disegno di legge sull’interruzione di gravidanza. Attivatosi in tutte le città del Paese, il movimento delle donne ha attaccato la Conferenza episcopale polacca che aveva accolto con soddisfazione la sentenza in questione, emessa a sostegno della richiesta del PiS sulla base di un uso strumentale della religione che in questo caso, nella manipolazione governativa, ha una funzione di controllo sociale e del sesso femminile.
A fine gennaio la legge entra in vigore in un clima nuovamente infiammato dalle proteste e inasprisce ulteriormente le già restrittive regole esistenti in questo ambito. Ora, infatti, l’aborto è consentito solo nei casi di stupro, incesto o se la salute della madre è a rischio. A novembre, dopo la sentenza sull’aborto, e anche sulla scorta del malcontento per il modo in cui veniva gestita la pandemia, il PiS era risultato in calo di consensi e solo il 35% dei polacchi condivideva la politica di un esecutivo che aveva mostrato di sottovalutare la reazione popolare. Un sondaggio effettuato all’inizio del 2021 dalla CBOS ha mostrato un recupero del favore popolare; c’è però da considerare che tale istituto è affiliato al governo.
Sempre alla fine dell’anno scorso, Varsavia si è resa protagonista, insieme a Budapest del veto al bilancio pluriennale dell’UE comprendente i 750 miliardi di Recovery Fund in quanto contrarie alla condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto. È noto che poi il problema è stato risolto con un accordo che, però, ha solo fatto prendere tempo alle parti. Il problema del mancato rispetto dello Stato di diritto è sempre attuale per entrambi i Paesi che l’anno scorso erano stati condannati, insieme alla Repubblica Ceca, dalla Corte Europea di Giustizia per essersi rifiutate di ospitare migranti che erano in attesa di ricollocazione dall’Italia e dalla Grecia nel 2015, quando i flussi verso il Vecchio Continente avevano raggiunto dimensioni considerevoli.
Come il Fidesz in Ungheria, il PiS in Polonia tende a spingere il Paese e l’opinione pubblica a una chiusura sempre maggiore e a far leva sulla paura di chi è diverso e portatore di valori diversi da quelli, falsi e fuorvianti, dell’appiattimento nazionalista voluto da Kaczyński e dai suoi seguaci.