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Il fuoco acceso di Jan Palach
di Tommaso Di Francesco - STORIA E MEMORIA. Il 19/1/ 1969 moriva a Praga il giovane che tre giorni prima si era immolato per protesta contro la normalizzazione della Primavera di Praga dopo l’invasione del Patto di Varsavia 55 anni fa un giovane si trasformava in torcia umana a Praga, lanciando l’appello «Ricordatevi dell’agosto», quello del ’68 che vide l’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia che applicavano la teoria della «sovranità limitata» dell’Urss di Leonid Brezhnev. UN’AGGRESSIONE MILITARE per cancellare l’esperienza del «socialismo dal volto umano» che aveva visto protagonista Alexander Dubcek e insieme alui la rinnovata leadership dei comunisti cecoslovacchi. I giovani amavano questo rinnovamento. « Era figlio della Primavera e il cedimento al diktat di Mosca… dopo l’occupazione, aveva costituito un trauma tremendo. Erano stati proprio i giovani i più entusiasti sostenitori del cambiamento del “socialismo dal volto umano” che si era manifestato nei primi otto mesi del ’68. Erano stati loro, vissuti in un regime poliziesco e repressivo verniciato di socialismo, che avevano capito come fosse giunta la loro ora, l’ora di sbarazzarsi di quel sistema che Dubcek nelle sue memorie definirà “antidiluviano”», ricorda lo storico della Primavera di Praga Francesco Leoncini. Ed era amato dalla classe operaia che vedeva per la prima volta l’ingresso della democrazia nelle fabbriche: a fine 1969 si contavano ancora più di 300 consigli operai in tutto il Paese. Un grande movimento che non era una «revisione», come sprezzantemente molti gruppi dell’estrema sinistra italiana commentavano. Diversamente da Il Manifesto che di fatto nacque con l’editoriale della rivista del settembre ’69 – non firmato ma di Lucio Magri – “Praga è sola” che costituì una delle ragioni della nostra radiazione dal Pci; restando poi come il manifesto, per iniziativa in primo luogo di Rossana Rossanda, attenti in tutta la nostra storia alle dinamiche drammatiche del socialismo reale. jan-palach-gettyimages-2661613-309x512CHE COSA ACCADE DUNQUE quel giorno del 16 gennaio 1969. Nelle prime ore del pomeriggio un giovane aveva vagato a lungo nelle vie adiacenti a piazza Venceslao, aveva bevuto per intontirsi, poi si era avvicinato sereno alla scalinata del Museo nazionale. Si era tolto il soprabito e aveva stappato una bottiglia. Nessuno intanto si accorgeva dei suoi gesti. Aveva versato il contenuto della bottiglia (era benzina) su tutto il corpo e poi, dopo aver acceso un fiammifero, si era dato fuoco. Di corsa, avvolto da una fiamma già alta, si era poi lanciato verso il monumento di San Venceslao a cavallo che sovrasta la piazza, davanti al Museo. Qualcuno provò a fermarlo, ma Jan, continuò fino alla fine la sua protesta. Con ustioni che ricoprivano tutto il corpo, Jan Palach morì tre giorni dopo in ospedale. Prima di morire volle accanto a sé il suo più caro amico, Holecek, dirigente degli studenti di filosofia di Praga, a cui Jan raccomandò – ammonendo sul limite estremo del la sua azione – queste parole: «Che nessun altro giovane commetta lo stesso gesto: bisogna vivere per quegli ideali per cui ho sacrificato la vita» e un breve testo, il suo testamento ultimo, in cui spiegava le motivazioni del suicidio: contro la censura di stato e di partito che ormai strangolavano quello che rimaneva della straordinaria esperienza di massa della Primavera di Praga. IL PAESE, IL MONDO, restarono sgomenti. Seguirono manifestazioni di protesta in tutta la Cecoslovacchia. Quel suicidio, quel farsi «torcia umana» era dettato dalla «disperazione di un popolo» – così era scritto nella motivazione politica del suicidio. Richiamava alla memoria i roghi di Saigon, quelli delle decine di bonzi, che nelle strade dell’allora capitale del Vietnam del Sud protestavano così contro l’aggressione militare degli Stati uniti al «piccolo» popolo del Sudest asiatico. Apparve dunque come un gesto al limite, lontano, si disse allora, dalla cultura occidentale e cecoslovacca in particolare, che pure aveva ed ha nel rogo dell’eretico Jan Hus, fatto bruciare vivo nel 1415 dal Concilio di Costanza, il suo massimo simbolo di riscatto culturale e religioso contro l’oppressione. Solo nel gennaio del 1990 si scoprì che il Vietnam non era per Jan Palach solo una drammatica suggestione e nemmeno il solo contesto storico di sangue dentro il quale si consumava l’ennesima spartizione della violenza nella Guerra fredda: la Bbc e poi la tv italiana, mandarono in onda la registrazione inedita delle ultime parole di Jan Palach prima di morire. Diceva che l’aveva fatto per la Cecoslovacchia calpestata dai carri armati di Brezhnev, ma anche per il Vietnam bombardato dai B52 americani. «Basta bombe…basta bombe…», ripeteva nello sfinimento della morte. Quel rogo intanto parlava al cuore e alla ragione dei comunisti della Primavera ’68, che dopo l’invasione del Patto di Varsavia, vivevano la dura «normalizzazione». le cui tappe erano state una sequenza d’infamie. Mosca che «sequestra» i dirigenti del partito; il XIV congresso comunista clandestino, quello che aveva rilanciato la Primavera, e che verrà autosconfessato. Cominciano le epurazioni, Dubcek diventa poco più che un paravento e nell’aprile ’69 viene destituito, e sarà poi espulso con altre centinaia di migliaia di comunisti riformatori nel ’70-’71. MA IN QUEL GENNAIO drammatico lo stesso Dubcek, Smrkovskij e il presidente della repubblica, Svoboda, investiti in prima persona del «gesto» che li accusava di cedere, passivi, al diktat di Mosca, trovarono il coraggio di inviare alla madre di Jan Palach questo lungo telegramma: «Noi ci siamo profondamente commossi apprendendo che vostro figlio è morto. Noi sappiamo che è un desiderio ardente e vero per il suo paese, per il suo avvenire felice, che ha portato vostro figlio a compiere questo gesto. I suoi obiettivi erano gli stessi per i quali noi lottiamo con tutte le nostre forze, per i quali tutti noi vogliamo e dobbiamo vivere. Il sacrificio di vostro figlio Jan è un avvenimento tanto più tragico in quanto la nostra patria avrebbe avuto bisogno della sua saggezza e del suo carattere puro, così come essa ha bisogno delle braccia e del cervello di tutti gli uomini onesti». La purezza di Jan era conosciuta dai giovani del movimento della facoltà di filosofia di Praga, che amavano la sua timidezza e la sua risolutezza. Nella mostra allestita nel 2009 a Praga al Korolinum, sede dell’Università Carlo, apparve una scoperta negli archivi: la lettera scritta da Palach a un amico dieci giorni prima della morte, nella quale incita gli studenti a occupare la sede di Radio Praga. LUI CHE AMAVA DEFINIRSI «comunista e luterano» e che nel suo primo anno di studio aveva già presentato una tesina «Sull’umanesimo in Marx giovane». Lui, così timido, che però non aveva esitato ad estrarre a sorte il proprio nome tra quelli di molti altri giorisoluti a morire. Infatti a dimostrare il drammatico, profondo riscontro del gesto di Jan nel grande movimento che aveva vissuto la speranza della Primavera e che ora ripiegava in un «inverno senza vie d’uscita» altri 20 giovani cecoslovacchi, seguirono il suo gesto disperato, anche contro le sue ultime volontà: subito si diedero fuoco due giovani operai a Pilsen e a Brno. Ora, 55 anni dopo, il rogo di Praga ’69 «illumina» la nostra buia stagione. Perché sono troppi i funerali celebrati e tanti i carri armati attivi, mentre la Cecoslovacchia – grazie ad una secessione certo non balcanica, ma dall’alto e brutale – non esiste più. Così nonostante la consuetudine corrente di cancellare la storia recente, ecco che di fronte alla miseria del presente si ravviva la memoria sulle ragioni del socialismo dal volto umano nel quale Jan Palach credeva. Per questo ogni strumentalizzazione del suo protagonismo da destra – quella italiana in particolare, prima con Berlusconi poi con il fascista La Russa- è insieme un’offesa e una menzogna.