di Teresa Isemburg -
Un anno è passato da quando in Brasile il governo federale da poco insediato sotto la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva veniva frontalmente attaccato da azioni golpiste coordinate, che devastarono le sedi istituzionali dei tre poteri nel distretto federale. A distanza di 12 mesi da quei fatti, l’esecutivo federale e in prima persona il presidente hanno promosso un atto pubblico forte negli spazi del parlamento, convocando i rappresentati istituzionali principali, cioè il presidente del Supremo Tribunale Federale, il presidente del Tribunale Superiore Elettorale, il Procuratore Generale della Repubblica, i presidenti dei due rami del parlamento, i governatori degli Stati e del distretto federale. In parallelo, in molte città si sono tenute manifestazioni per la difesa dello Stato democratico di diritto. Prima di riassumere i punti qualificanti dei discorsi pronunciati, va sottolineato che all’ invito forte del Presidente della Repubblica non tutti hanno riposto positivamente e ci sono state assenze significative. In primo luogo il presidente della camera, l’infido e abile Arthur Lira, in secondo luogo il governatore del distretto federale (al quale compete la responsabilità della sicurezza del territorio dove hanno sede fisica i palazzi del potere federale) e poi diversi governatori (San Paolo, Minas Gerais, Rio de Janeiro, Parana, Santa Catarina e altri) oltre a 30 degli 81 senatori. Presenze e assenze disegnano bene la non facile situazione politica del paese: il fatto cioè che, nonostante la vittoria di Lula, il peso e la capacità organizzativa e di mobilitazione istituzionale della destra (che nel centrão, grande centro, riunisce estrema destra, destra e centro e che ha maggioranza in parlamento) è molto grande e articolata su tutto il territorio nazionale e soprattutto che essa continua a ritenere di avere “diritto divino” (e secolare) di controllare le leve del potere, a prescindere dalla educazione e dal rispetto istituzionale che qualunque politico dovrebbe in primo luogo avere.
Tutti gli interventi della cerimonia hanno in modo concorde ripetuto che le indagini della magistratura non hanno un termine di scadenza, tutti i responsabili di “Lesa patria” (è questo il nome dell’operazione), dai singoli partecipanti ad atti illeciti, ai finanziatori, fino agli ispiratori intellettuali verranno identificati e sottoposti a giusto processo e conseguenti pene.
Il giorno 7 gennaio, la potente rete Globo ha messo in onda un documentario di un’ora in cui ricostruisce a grandi linee gli accadimenti dell’8 gennaio 2023, aggiungendo alcune puntualizzazioni. Il Presidente Lula ha espressamente affermato di non essere stato ben informato, inducendolo quindi ad allontanarsi da Brasilia, il sindaco di Araraquara (città colpita da un disastro dove Lula portava l’appoggio del governo) Edson Edinho, ascoltato compagno di lunga data del presidente, ha ricordato il momento non facile in cui venne deciso di non fare ricorso alla GLO/Garanzia della legalità e dell’ordine. Qualcuno del governo a Brasilia aveva già pronta una minuta … Ora la GLO comporta di passare il potere decisionale all’esercito per ristabilire appunto l’ordine: in questo caso sarebbe stato il cammino per richiamare dagli Usa Bolsonaro (che là era scappato per sottrarsi al momento pubblico di consegna della fascia presidenziale a Lula dando un segnale eversivo ai propri fedeli, il “fischio del cane”), avrebbe dichiarato nulle le elezioni e occupato i luoghi del potere. Interessante che su questo punto il sindaco ha ricordato che la prima persona a dire “GLO no” sia stata Janjia, la sposa coraggiosa di Lula. Molto interessante la ricostruzione fatta dal ministro della giustizia Flavio Dino e da Ricardo Cappelli, segretario esecutivo dello stesso ministero nominato commissario della pubblica sicurezza del distretto federale, che è responsabile dell’area delle sedi istituzionali della capitale delle trattative all’interno del quartiere generale dell’esercito per sgomberare i manifestanti lì accampati da giorni. Il discorso era semplice: noi, diceva il comandante dell’esercito generale, Julio Cesar Arruda, abbiamo più uomini armati di voi. Mi permetto di dire in modo puntuale alcune cose su quei giorni perché esse, insieme agli atti della CPMI/Commissione parlamentare mista di inchiesta su atti e omissioni dei fatti dell’8 gennaio 2023 che ha funzionato da maggio e novembre 2023, danno un quadro documentato della vasta articolazione dell’eversione, preparata con cura e da tempo.
A questa esposizione realistica e documentata se ne contrappone un’altra, costruita dalle non poche forze della destra e della destra estrema anti-istituzionale, che riflette la visione di buona parte del ceto medio, delle dirigenze dei gruppi neo-pentecostalisti, della cosiddetta “famiglia militare”, oltre agli agrari, a diversi imprenditori, blocco che ha una presenza maggioritaria in parlamento, che negano che si sia trattato di un colpo di Stato. Sono solo cittadini che hanno espresso la loro opinione, senza intenzioni di appropriazione indebita del potere. Golpe, dicono anche alcuni parlamentari, è quando i carri armati escono nelle strade… Insieme a questa analisi di fantasia che viene diffusa e alimentata molto dai social, ma che è presente anche in mass-media più strutturati, si cerca di costruire l’ipotesi dell’amnistia, del colpo di spugna.
La sensazione, osservando la situazione di questo primo anno, è che le forze avverse al rispetto delle normali procedure rappresentative non abbiano affatto desistito dai loro propositi e questo è confermato anche dal modo, ancora una volta poco istituzionale, in cui opera in parlamento l’opposizione. Ad esempio, sul limite temporale del riconoscimento delle terre indigene. Il Supremo Tribunale Federale in data 21 settembre 2023 dichiarava anticostituzionale l’ipotesi di riconoscere quali terre ancestrali solo gli spazi effettivamente occupati prima del 5 ottobre 1988, data della promulgazione della Costituzione. Il 27 settembre 2023 il senato votava invece, con opportunistica procedura di urgenza (la materia si trascina da anni), una norma che accoglieva la equivoca teoria del limite temporale, che straccia i diritti delle popolazioni ancestrali. Come evidente, si trattava di una scelta politica di disprezzo verso il Supremo che, pur con oscillazioni, difende i principi costituzionali, specialmente quelli fondamentali, che cioè non possono essere modificati. Si è quindi aperto un contenzioso complesso fra presidenza della Repubblica che ha bloccato buona parte del provvedimento, il parlamento e il Supremo dove approderanno i ricorsi. Anche le sedi competenti delle Nazioni Unite sono coinvolte, sebbene i giudizi da loro espressi non abbiano conseguenze esecutive. Questo è solo uno dei casi in cui il parlamento vota in modo lontano dalle disposizioni vigenti o respinge progetti di legge dell’esecutivo, anche dopo lunghe trattative accettate da entrambe le parti. Inoltre, in ambito parlamentare dell’opposizione si avviano iniziative per modificare la permanenza dei ministri del supremo tribunale federale o si recupera un antico tema, quello di indebolire il presidenzialismo a favore di un rafforzamento del parlamentarismo.
Come sempre, quando cerco di scrivere qualche cosa su quello che accade in Brasile mi domando se può avere qualche interesse per i miei concittadini. In questo caso, all’aspetto informativo su accadimenti in un Paese di un qualche peso di cui poco si parla nei media italiani, si unisce la somiglianza di linguaggio fra le destre/estreme destre anche in contesti diversi. Coloro che cercano in modo vario di manomettere le istituzioni vengono sempre definiti come bravi ragazzi patriottici (anche chi sceglie di asservirsi all’invasore o agli interessi del capitale finanziario internazionale), chi si appella alla tortura o alla pena di morte come pratica per evitare il disordine viene guardato e trattato con rispetto invece di essere punito, infine in modo unilaterale si comincia a parlare di cambiamenti istituzionali che alterano del tutto il quadro costituzionale. E così via. In questo momento storico in cui in politica il pensiero privilegia questioni morali (orientamento sessuale, riproduzione, modelli famigliari e affettivi), invece che progetti legati alle condizioni materiali di vita dei cittadini (in primo luogo lavoro, scuola, sanità, abitazione), questa convergenza di linguaggi e pratiche probabilmente con forme più o meno strutturate di coordinamento chiedono vigilanza e, possibilmente, iniziative più incisive da parte di chi non condivide questo modo di operare nella politica.