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Ilan Pappé: Chi vuole vedere una Palestina pacifica dovrà parlare prima di tutto di una Palestina libera
di Ilan Pappé Quella che segue è una conferenza tenuta da Ilan Pappé il 19 ottobre scorso all’università di Berkeley in California. Pappé, attualmente direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina presso l’Università di Exeterer nel Regno Unito, è uno storico che ha insegnato all’università di Haifa, dalla quale è stato espulso per le sue denunce del carattere razzista del sionismo e per il suo lavoro di storico che ha documentato in modo inoppugnabile la pulizia etnica della Palestina che i sionisti hanno sempre cercato di occultare attribuendola a cause diverse ma non a una loro deliberata programmazione. Grazie per la gentile presentazione, grazie a tutti per essere qui oggi. Voglio ringraziare tutti gli organizzatori che hanno reso possibile questo evento e apprezzo davvero che abbiate dedicato del tempo per essere con noi in questo momento cruciale e doloroso nella storia di Israele e della Palestina. Prima del 7 ottobre 2023, la maggior parte della società ebraica israeliana guardava con una certa paura e apprensione alle ultime settimane di questo mese. Il discorso principale in Israele fino al 7 ottobre 2023 riguardava quale sarebbe stato il futuro di Israele. Le manifestazioni settimanali di centinaia di migliaia di israeliani facevano parte di un movimento di protesta contro il tentativo del governo di cambiare la legge costituzionale in Israele e creare un nuovo sistema politico nel quale i poteri politici avrebbero avuto il controllo totale sul sistema giudiziario e la società civile sarebbe stata sottoposta a un controllo più stretto da parte dei gruppi messianici e degli ebrei religiosi. In uno dei miei articoli avevo descritto la particolare lotta per l’identità di Israele, che è stata al centro dell’attenzione fino al 7 ottobre 2023, come una lotta tra lo Stato di Giudea e lo Stato di Israele. Lo stato della Giudea era quello stabilito in Cisgiordania dai coloni ebrei, una sorta di combinazione di giudaismo messianico, fanatismo sionista e razzismo ed era diventato una sorta di struttura di potere, assai cresciuta per prominenza e importanza negli ultimi anni, soprattutto sotto il governo Netanyahu, che stava per imporre il suo modo di vivere, la sua percezione della vita, al resto di Israele ben oltre quella che chiamiamo Giudea, oltre la Cisgiordania e lo spazio ebraico in Cisgiordania. Contro questa struttura si muoveva lo ‘Stato di Israele’, simboleggiato al meglio dalla città di Tel Aviv, con l’idea di un Israele pluralista, democratico, laico, soprattutto occidentale o se volete europeo, in lotta esistenziale contro lo ‘Stato della Giudea’. Questo scontro sembrava essere al centro di quella che si potrebbe definire quasi una guerra civile e, se non una vera guerra civile, almeno una guerra fredda civile, sicuramente una guerra culturale tra gli ebrei israeliani. Ma quando qualcuno poneva ai due protagonisti di questo conflitto interno israeliano la questione dell’occupazione della Cisgiordania e chiedeva se il problema non dovesse entrare nella discussione sul futuro di Israele, la risposta era “no”, l’occupazione non deve essere tirata in ballo da nessuno, l’occupazione è irrilevante per il futuro di Israele. In effetti se qualcuno cercava di introdurre l’occupazione come argomento nelle proteste settimanali contro la riforma della giustizia o la rivoluzione della giustizia come la chiamano, gli veniva detto di andarsene e di non presentarsi tra i manifestanti che sventolavano la bandiera israeliana. Sicuramente chi avesse portato la bandiera palestinese alla manifestazione sarebbe stato malmenato e cacciato dalla manifestazione per aver ricordato che forse il futuro di Israele dipende anche dalle condizioni e dalla situazione in cui si trovano i quasi due milioni di cittadini palestinesi di Israele, sottoposti a un processo di criminalizzazione da parte di bande armate che terrorizzano in continuazione i cittadini palestinesi, ovunque in Israele. Bande criminali tra cui molti sono ex collaboratori di Israele in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, trasferiti da quei territori dopo gli accordi di Oslo, molto ben equipaggiati con armi e assolutamente certi dell’impunità rispetto a provvedimenti di polizia o procedure giudiziarie. Come molti di voi sapranno, questo comporta che i palestinesi che vivono in Israele – sto parlando di cittadini israeliani – hanno paura di uscire la sera nelle loro strade e nei loro spazi a causa della nuova realtà. Ma anche questo non doveva essere argomento della discussione in atto sul futuro di Israele. A chi venisse ricordato Gerusalemme Est e la pulizia etnica dei quartieri arabi di Gerusalemme, i manifestanti e i loro leader avrebbero risposto che non era un argomento importante ovvero, come ha detto Amira Hass, la coraggiosa giornalista di Haaretz, per quanto riguarda gli israeliani – e questo è fino al 7 ottobre 2023 – l’occupazione non esiste, il problema non esiste più, è stato risolto, c’è un’Autorità Palestinese con una presenza ebraica molto intensa negli insediamenti in Cisgiordania e nessuno deve più occuparsene. In effetti, se si guarda alle ultime quattro campagne elettorali in Israele, e ce ne sono state parecchie, come forse ricorderete, una dopo l’altra su base annuale, nessuno ha menzionato la questione palestinese. L’occupazione, chiamatela come volete, non era argomento di discussione. Agli israeliani si chiedeva di votare perché non esisteva più. Se qualcuno avesse menzionato la Striscia di Gaza, se avesse parlato ancora dell’assedio di Gaza, la gente avrebbe detto “ma che stai dicendo”, anche questa era una questione che non preoccupava più nessuno. E se avesse rimarcato che in realtà l’uccisione quotidiana di palestinesi nell’ultimo anno o negli ultimi due anni, l’uccisione quotidiana di palestinesi in Cisgiordania, la costante e ricorrente invasione di Al Aqsa è qualcosa che non passerà inosservato ma queste politiche avranno ripercussioni e il fatto che la debole Autorità Palestinese non è in grado di proteggere i palestinesi dalla violenza dei coloni, dalla violenza dell’esercito israeliano e dalla violenza della polizia di frontiera israeliana non significa che non ci siano gruppi palestinesi che cercheranno di difendere i palestinesi non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in altre parti della Palestina storica, come è stato ribadito all’opinione pubblica israeliana dai politici, dal capo dell’esercito e da quello dei servizi segreti israeliani… Ebbene, ancora una volta la risposta era no, non c’è nessun problema, l’unico problema è quello della riforma, sia per quelli che l’accettano, che per quelli che la rifiutano. Il motivo per cui tutte queste altre questioni non sono state affrontate è molto chiaro, perché ciò che in sostanza si è verificato in Israele è una lotta tra due diverse forme di apartheid. C’erano quelli che volevano sostenere una forma secolare di apartheid in cui gli ebrei israeliani potrebbero vivere in una democrazia pluralista di tipo occidentale e c’era l’altro tipo di apartheid, quello messianico, religioso, teocratico. Quindi la lotta era una questione interna ebraica su quale tipo di vita ebraica dovrà prevalere, senza alcun riferimento alla vita dei palestinesi, tanto di quelli sotto occupazione in Cisgiordania, come di quelli sotto assedio nella Striscia di Gaza o sotto un regime discriminatorio all’interno di Israele, per non parlare dei molti milioni di palestinesi rifugiati. Tutto questo sembrava inesistente, ma è scoppiato improvvisamente in faccia agli israeliani la mattina del 7 ottobre e adesso c’è un’illusione ottica prodotta dallo shock subito da Israele la mattina di sabato 7 ottobre. L’illusione cioè che tutte queste crepe nell’edificio sionista siano scomparse, perché l’attacco di Hamas è stato così brutale e devastante che tutti i dibattiti interni sono stati dimenticati e tutti sono uniti dietro l’Esercito e il suo attuale piano di invasione della Striscia di Gaza per riprendere sul terreno le politiche genocide già in essere. Penso che sia un’illusione ottica: il conflitto interno israeliano non scomparirà, ritornerà. Non so quando, ma tornerà. Ma quel che è più importante – e questo è qualcosa su cui dobbiamo insistere come attivisti e accademici e chiunque in un modo o nell’altro sia legato alla Palestina e alla lotta palestinese – è la nostra insistenza sul fatto che gli eventi del 7 ottobre, comunque li comprendiamo, comunque li affrontiamo, da un punto di vista umano, da un punto di vista strategico, da un punto di vista morale, comunque ci avviciniamo a loro, non dobbiamo cadere nella trappola in cui sembrano cadere anche molte brave persone in questo paese decontestualizzando e destoricizzando gli eventi del 7 di Ottobre. Questo è qualcosa che non cambierà nelle prossime settimane. La realtà fondamentale sul terreno è ancora la stessa che c’era prima del 7 ottobre. Il popolo palestinese, a cominciare addirittura dal 1929, è coinvolto in una lotta di liberazione: è una lotta contro il colonialismo e una lotta contro i coloni e ogni lotta anticolonialista ha i suoi alti e bassi, ogni lotta anticolonialista ha momenti di gloria e momenti difficili di violenza. La decolonizzazione non è un processo asettico in vitro, è una cosa caotica, disordinata e più a lungo durano il colonialismo e l’oppressione, più è probabile che si verifichino scoppi violenti e per molti aspetti disperati. È importante ricordare alla gente la storia delle ribellioni degli schiavi in questo Paese e il loro esito, le rivolte dei nativi americani, le ribellioni degli algerini contro i coloni in Algeria, il massacro di Orano durante la lotta di liberazione del FLN. Sono cose che fanno parte della lotta per la liberazione. Si possono a volte mettere in discussione certe scelte strategiche, si possono attraversare momenti difficili a causa delle scelte che vengono fatte, ma non si può perdere la propria bussola morale se non si decontestualizzano gli avvenimenti e si lotta contro l’atteggiamento tipico dei media e del mondo accademico in questo Paese e nell’Occidente e nel Nord del mondo in generale che ha questa capacità di prendere un evento e iniziare a parlarne come se non ci fosse una storia che produce delle conseguenze. Prendete i racconti sulla festa attaccata il 7 ottobre: non si dice che era una festa in cui si celebrava l’amore e la pace a un chilometro e mezzo dal ghetto di Gaza. C’era gente che festeggiava amore e pace, mentre la popolazione di Gaza a pochi chilometri di distanza viveva sotto uno degli assedi più brutali della storia umana che è andato avanti per più di 15 anni, controllato dagli israeliani che decidevano quante calorie potevano entrare nella Striscia di Gaza e stabilivano chi entra e chi esce, trattenendo due milioni di persone nella più grande prigione a cielo aperto sulla terra. Il contesto consente di non perdere l’orientamento morale nel nostro giudizio, ma molto più importante del contesto immediato e anche del contesto dell’assedio – e su questo vorrei concentrarmi stasera – è il fatto che una delle sfide più grandi che dobbiamo affrontare come attivisti per la Palestina o studiosi della Palestina che sono anche attivisti, è che non possiamo sfidare decenni di propaganda, invenzione e contro-narrazione con degli slogan. Questo è il nostro problema principale. Penso che abbiamo bisogno di spazio, abbiamo bisogno di tempo per spiegare la realtà, perché c’è una quantità enorme di punti di spaccio, fonti di informazione, luoghi di produzione del sapere che hanno messo in circolo negli anni un’immagine e un’analisi falsa e artificiale della Palestina con l’aiuto di studi accademici, media, serie televisive di Hollywood, ecc.. Sono mezzi questi che agiscono sulla mente e le emozioni delle persone e hanno creato una rappresentazione della storia che non puoi sfidare con delle frasi, non puoi nemmeno contestarla solo con il tuo senso della giustizia. Puoi sfidarla solo se il tuo senso di giustizia è basato su una profonda conoscenza della storia e un’attenta analisi della realtà, utilizzando il linguaggio giusto perché il linguaggio che viene utilizzato anche dalle cosiddette forze liberali progressiste è un linguaggio che assolve Israele e non consente di rendere giustizia alla lotta anticoloniale dei Palestinesi, di accettarla e legittimarla. Nel pantheon della lotta anticolonialista in cui tanti collocherebbero eroi come Nelson Mandela o Gandhi e tanti altri importanti leader dei movimenti di liberazione non troverete un solo palestinese, vengono sempre trattati come terroristi, mentre sostanzialmente sono un movimento anticoloniale. L’insistenza nell’usare il linguaggio giusto e nel conoscere la storia del luogo e avere la giusta analisi è qualcosa per cui, come dicevo, serve spazio. Non è possibile cavarsela dicendo ‘io ho ragione e tu hai torto’. Questa è una sfida enorme per tutti noi in un momento come questo in America ad esempio, dove sembra esserci questo sostegno incondizionato a Israele e questo approccio ipocrita alla sofferenza degli israeliani che non si è mai manifestato nei confronti della sofferenza dei palestinesi in nessun momento della storia della Palestina. La storia, il contesto storico, è l’antidoto rispetto alla destoricizzazione degli avvenimenti del 7 Ottobre e di quelli che stanno accadendo davanti ai nostri occhi oggi e probabilmente nelle prossime settimane e mesi. Penso che il contesto storico abbia due livelli, due pilastri fondamentali su cui dovrebbe reggersi e penso che siano molto importanti per chiunque sia coinvolto in dibattiti pubblici, su base individuale o istituzionale, in ambito accademico o in quello dei media. Sono i pilastri fondamentali per tutti questi tipi di lotta. Non bisogna mai abbandonare la nostra insistenza su una definizione accurata del sionismo. Questo è importantissimo. Non si può permettere alcuna discussione su ciò che accade oggi in Israele o in Palestina senza parlare del sionismo e infatti non è certo per caso che così tanti sforzi siano stati investiti da Israele e dai suoi sostenitori, in questo come in altri Paesi, per equiparare antisionismo e antisemitismo, tanto che se solo menzioni la parola sionismo sei già in procinto di essere considerato antisemita e quindi verrai messo a tacere. Nondimeno questo è l’unico modo corretto di rappresentare questa storia. La storia inizia con un’ideologia che è razzistanella sua intima essenza è una ideologia razzista. Appartiene alla genealogia del razzismo, non alla storia dei movimenti di liberazione, come si insegna nella maggior parte delle università americane, non alla storia dei movimenti nazionali come si insegna nella maggior parte del Nord del mondo o se ne parla e discetta sui media occidentali. No, appartiene alla storia del razzismo, di un’ideologia razzista non tanto in origine, quanto nel modo in cui si è manifestata in terra di Palestina. Questo razzismo è parte integrante della natura di insediamento coloniale del movimento sionista. Non si tratta di un fatto eccezionale, ma di qualcosa che avete conosciuto anche in questo Paese, di una storia di europei scacciati dall’Europa e che hanno dovuto trovare un posto diverso per essere europei, perché non erano accettati come europei e hanno trovato Paesi in cui vivevano altri popoli e in quell’incontro, nel momento in cui questi coloni hanno incontrato gli indigeni, si è attivata la logica della loro eliminazione. Questo è vero anche per la Palestina e per le politiche di eliminazione, quando l’incontro sionista con i palestinesi porta nel suo DNA fin dalla nascita stessa del movimento sionista alla fine del XIX secolo il desiderio, per dirla in termini meno accademici, di avere quanta più Palestina possibile con il minor numero possibile di palestinesi. C’è sempre stata la dimensione demografica e quella geografica, la dimensione demografica e quella spaziale: più spazio hai, meno popolazione indigena vuoi. Le politiche di eliminazione possono comportare il genocidio o un apartheid su base etnica, possono assumere forme diverse in luoghi diversi o anche nello stesso luogo a seconda delle circostanze e delle condizioni storiche. In ogni caso, rispetto a quello che è accaduto a Gaza, non è possibile prescindere da queste politiche di eliminazione praticate da Israele e prima ancora dai sionisti. Sono politiche che prevedono l’eliminazione delle popolazioni native, un’eliminazione dei nativi iniziata già nell’immaginario sionista, nelle opere dei pittori sionisti, negli scritti degli intellettuali sionisti e divenuta una strategia negli anni ’30 che fu messa in atto nel 1948 con la pulizia etnica della Palestina che si concluse con l’espulsione di metà dei palestinesi e la distruzione di metà dei villaggi della Palestina. Tra l’altro, in molti casi i kibbutz occupati da Hamas per alcune ore sono costruiti sulle rovine di quei villaggi palestinesi distrutti nel 1948 e non pochi tra i palestinesi che li hanno occupati appartenevano alla terza generazione di rifugiati palestinesi provenienti proprio da quei villaggi non lontani da Gaza. Anche questo fa parte della Storia. Quello che sto dicendo non significa che io giustifichi tutto quello che è stato fatto, ma fornisce il contesto storico senza il quale non si può andare alle radici della violenza, ma si rimane al livello dei sintomi. E invece bisogna andare alle radici della violenza che nasce da una precisa ideologia, una ideologia razzista, l’ideologia sionista alla cui base sta l’idea dell’eliminazione dei nativi, un’idea che, come ho detto, non è propria solo del sionismo ma anche di altri movimenti colonialisti europei di insediamento motivati e ispirati dall’idea di eliminare gli indigeni. Rivolgendo uno sguardo anche molto superficiale alla Storia si vede che la cosa veramente importante per un movimento ideologico, motivato dall’idea di avere a disposizione quanta più terra possibile col numero minimo di abitanti originari, è il periodo storico in cui le politiche di eliminazione sono state concepite e messe in atto. Se queste politiche vengono adottate nel XIX° secolo come è stato fatto negli Stati Uniti, questo avviene in un mondo del tutto indifferente al colonialismo, al razzismo e ai diritti umani collettivi o ai diritti civili. Ma se questo vien fatto dopo la seconda guerra mondiale viene fatto in realtà proprio nell’anno della dichiarazione dei diritti dell’uomo, con l’élite mondiale fiera di poter annunciare che dopo la guerra il mondo aveva un fondamento morale che avrebbe reso impossibile l’uccisione in massa delle persone che si era vista durante la guerra e avrebbe sradicato il razzismo che si era manifestato in tanti luoghi, perché esisteva ormai su questo un consenso morale. Ma se si riflette sul fatto che, in quello stesso anno, il Sudafrica emana la legge sull’apartheid e Israele mette in atto la pulizia etnica della Palestina, si comincia a comprendere il messaggio ricevuto dal regime di apartheid del Sudafrica e più ancora dallo Stato sionista nel 1948 da parte della comunità internazionale: sì stiamo annunciando con orgoglio la Dichiarazione dei Diritti Umani, ma non si applica nel vostro caso, la pulizia etnica della Palestina è accettabile per il fatto che – beninteso queste era la propaganda non certo il vero motivo, ma era la giustificazione data da un intellettuale americano – per il fatto che bisognava tollerare una piccola ingiustizia per correggerne una molto più grande. Vale a dire che i palestinesi dovevano risarcire gli ebrei per mille anni di antisemitismo europeo e cristiano. Il baratto era molto chiaro e per questo Israele fu il primo Stato a riconoscerne la nuova Germania. A pochi anni dal regime nazista, c’era molta incertezza in Europa e in Occidente sull’opportunità di accogliere la Germania Ovest nel consesso delle nazioni civili. Ma, dopo aver ottenuto il via libera da Israele che pretendeva, e non a ragione, di rappresentare come massimo rappresentante dell’Olocausto tanto i sopravvissuti quanto le vittime, la nuova Germania è stata accettata e in cambio Israele si è assicurata la non interferenza dell’Occidente su quello che stava facendo in Palestina. Ci si sarebbe aspettato che Israele non fosse il primo, ma almeno il terzo Paese a riconoscere la nuova Germania, ma per entrambi l’accordo era molto importante e comportò anche un’imponente assistenza finanziaria a Israele da parte ella Germania, che contribuì a costruire il moderno esercito israeliano già all’inizio degli anni ’50. Se il messaggio dal mondo era che nel caso dello Stato di Israele la pulizia etnica rappresentava un metodo accettabile di strategia della sicurezza nazionale non ci si può certo stupire che poi la pulizia etnica sia continuata. Tra il 1948 e il 1967 Israele ha espulso 36 villaggi dal suo territorio. Nel 1967 ha espulsi 300.000 palestinesi da Cisgiordania e Gaza e quasi 700.000 ne ha espulsi in seguito fino ad oggi. E mentre stiamo parlando Israele sta continuando la pulizia etnica in altre località e dalle montagne meridionali di Hebron, dall’area di Gerusalemme e da altre parti della Palestina. La pulizia etnica della Palestina è diventato il DNA della politica israeliana nei confronti dei palestinesi e per metterla in atto si impiegano centinaia di migliaia di persone, perché non è la pulizia etnica di massa come quella del 1948, ma è uno stillicidio, a volte l’espulsione di una persona o di una famiglia, a volte non è nemmeno un’espulsione ma la chiusura di un villaggio o di un’enclave. Anche nella Striscia di Gaza c'è una forma di pulizia etnica, perché se crei il ghetto di Gaza non devi poi calcolare quei due milioni di palestinesi nell’equilibrio demografico tra arabi ed ebrei, perché quei palestinesi non hanno voce in capitolo sul futuro della Palestina storica. Questo è l’unico punto fermo storico necessario di fronte a chiunque si esprima col linguaggio vile che viene usato contro i palestinesi quando ci dicono che se sventoliamo la bandiera palestinese stiamo sostenendo il terrorismo e quando si paragona quello che è successo la mattina del 7 ottobre con l’Olocausto, calpestando così la memoria dell’Olocausto e non capiscono o non sanno cosa stanno facendo. Ma anche se lo dicono con la convinzione di un’alta motivazione morale è importantissimo collocare questo particolare evento nella storia più ampia e lontana della Palestina moderna e nella storia particolare dell’assedio di Gaza, iniziato nel 2007, l’assedio disumano di 2 milioni di persone, uno degli assedi più lunghi, probabilmente il più lungo mai visto, contro un numero così elevato di persone in termini di cibo, acqua, libertà di movimento e altre necessità fondamentali della vita, tanto da indurre le Nazioni Unite già nel 2020 a dichiarare la vita a Gaza insostenibile per gli esseri umani. L’hanno dichiarato tre anni fa che a Gaza la linea rossa era stata superata, perciò non potete stupirvi se quando la gente esce da quella prigione c’è rabbia, vendetta e violenza. E’ ovvio, è successo lo stesso nelle ribellioni degli schiavi, dei nativi americani, dei popoli colonizzati dall’India al Nord Africa. Come ho detto prima la lotta anticoloniale non è cosa da Quaccheri e pacifisti, può essere molto violenta e può essere più pacifica. Molto dipende da quanto il colonizzatore, il "pulitore etnico", è disposto ad accettare il fatto che le vittime del colonialismo e dell’oppressione non scompariranno e non rinunceranno a lottare. Prima lo capiscono, più è probabile che si verifichi una transizione pacifica da una realtà coloniale a una postcoloniale. Se al contrario si rifiutano di capire, la realtà continuerà a esplodergli in faccia e il 7 ottobre non sarà stato che l’ultimo episodio di quel tipo. Ma c’è anche un altro contesto storico che vorrei portare alla vostra attenzione ed è molto importante perché in tutto il discorso che domina la copertura da parte di media e politici in questo Paese e in Occidente in generale, si vede subito come le persone cadano in facili generalizzazioni sui palestinesi, con l’uso di aggettivi che dovrebbero caratterizzare in generale i palestinesi, così come abbiamo sentito prima e dopo l’11 settembre 2011 riguardo ai musulmani in generale, ma anche durante il periodo coloniale su qualsiasi popolo che osasse sfidare gli imperi. Non c’è niente di nuovo in tutto ciò, ma è importante ricordare che il sionismo ha rappresentato un disastro, che ha prodotto la distruzione di una Palestina che senza il sionismo sarebbe stata assai diversa. E’ molto importante ricordare come fosse la Palestina prima del 1948 in cui musulmani, cristiani ed ebrei coesistevano, e la coesistenza non era un’idea artificiale tipo ‘vivi e lascia vivere’, ma un modo genuino di convivere. Non lo si può idealizzare naturalmente, non mancavano le tensioni e i momenti di crisi, ma era un mosaico di vita che particolarmente in Palestina consentiva alla gente di godere di quello che il Paese aveva da offrire. E il Paese aveva da offrire cose che non esistono più nella Palestina attuale. Il Paese offriva per esempio abbondanza d’acqua. Quelli che ricordano la Palestina prima del 1948 sanno bene che ogni villaggio palestinese aveva le sue sorgenti di acqua fresca. La favola sionista, ripresa di recente dal presidente dell’Unione Europea, dei sionisti che fanno fiorire il deserto è una pura invenzione. In molti luoghi il sionismo ha trasformato in realtà una terra fiorente in un deserto. E’ un fatto che si può vedere solo ricostruendo con l’aiuto degli storici la realtà della Palestina prima del 1948 in termini di umanità e rapporti umani e anche in termini di ecologia. Il rapporto per esempio tra i Palestinesi e le piante aromatiche e medicinali e la natura distrutta dal sionismo era parte della qualità della vita dei Palestinesi. Oppure, come osservava il tardo Emil Habibi quando viveva a Haifa: ‘non ho mai saputo chi fosse musulmano e chi cristiano nella mia strada prima del 1948’. E non è questione di nostalgia per amore di nostalgia, ma una sorta di storia alternativa nel senso che c’era la possibilità di una Palestina diversa e in quella storia bisogna anche includere il fatto che il movimento nazionale palestinese, il movimento anticoloniale palestinese fin dal primo momento in cui il sionismo mise piede nella Palestina storica si è attenuto a due principi e la cosa è così ben documentata che non si fa davvero fatica a dimostrarlo. C’erano due principi ai quali i palestinesi tenevano e in particolare lo dicevano agli statunitensi perché erano loro che, col presidente Woodrow Wilson, avevano introdotto questi principi nel 1918 nel mondo arabo, e in particolare nel Mediterraneo orientale, ed erano stati poi ribaditi dalle Nazioni Unite. Il primo di questi principi era il diritto all’autodeterminazione dei popoli e i palestinesi pensavano che questo diritto spettasse anche a loro, come agli iracheni, ai libanesi, agli egiziani. Il secondo principio era la democrazia. Se ci sottraete al dominio ottomano sotto il quale siamo stati per 400 anni e volete che decidiamo del nostro futuro post-ottomano, quale sarà il nostro futuro e quale sarà la natura del nostro regime, del nostro Stato, della nostra esistenza politica lo vogliamo decidere democraticamente col voto della maggioranza. Spetta a noi decidere se vogliamo far parte della grande Siria, se vogliamo una Palestina araba indipendente, o una repubblica federale panaraba. Eppure da tutte le delegazioni statunitensi che visitarono la Palestina tra il 1918 e il 1948 e da tutte le delegazione internazionali, tanto angloamericane che di qualsiasi altra organizzazione, i Palestinesi ricevettero sempre la risposta che sì il principio della democrazia e dell’auto­determina­zione sta molto a cuore al mondo occidentale e costituisce il solido pilastro su cui fondare il nuovo mondo arabo postottomano, ma non si può applicare alla Palestina perché l’impero britannico si era impegnato a fare della Palestina uno Stato ebraico e gli ebrei sono un’infima minoranza. Dunque il principio di autodeterminazione non si può applicare e naturalmente il principio di maggioranza e di elezioni democratiche era fuori discussione per i Palestinesi. Anche questo è importante nel contesto del nostro viaggio nel passato storico per contestualizzare il tipo di oppressione e la genesi storica del razzismo approvato e sostenuto dall’Occidente per quanto riguardava la Palestina. Ma questo secondo pilastro non è importante solo per ricordarci quello che il sionismo ha prodotto o quello che la Palestina avrebbe potuto essere, ma rappresenta anche il fondamento sul quale costruire una Palestina liberata, una Palestina postcoloniale. Questo è il fondamento. Pensate agli elementi di questo passato e come si collegano a una realtà diversa da quella che abbiamo avuto e non lasciate che l’attuale attacco a Gaza e le politiche genocide di Israele vi distolgano dal continuare a pensare alla liberazione della Palestina, a come sarebbe la Palestina liberata e dal confronto con i palestinesi che non pensano solo alla prossima mossa tattica, ma lo fanno con una visione del futuro. E’ quel che ho fatto con il mio libro con Ramsey Baruch confrontandoci con 40 intellettuali palestinesi e chiedendo loro di come immaginassero una Palestina liberata e la loro visione della liberazione, cosa diversa dalla lotta per la liberazione. Se si esamina la loro idea della liberazione si vede che porta con sé tutti gli elementi che esistevano in Palestina prima del 1948: una società che non discrimina sulla base della religione, della setta o dell’identità culturale, una società che rispetta la democrazia, rispetta i principi del vivere e lasciare vivere e, forse la cosa più importante di tutte, una società che riporta organicamente la Palestina nel mondo arabo, nel mondo musulmano da cui è stata strappata con la forza. Essere parte del mondo arabo non è uno scenario facile per molte persone e questo è comprensibile, ma non si può contribuire alla soluzione dei problemi o a realizzare gli scenari più positivi per il mondo arabo se non si è parte dei problemi del mondo arabo; non si può discutere di diritti umani in Iran o di diritti civili in Egitto se non si parla anche dei diritti umani e civili dei Palestinesi. Non ha senso discutere di queste cose perché si finirà sempre per arrivare all’eccezionalismo della negazione di questi diritti per i Palestinesi e volendo contribuire dall’esterno per aiutare il mondo arabo ad affrontare questi problemi di diritti umani e civili ci si troverà sempre in una posizione di inferiorità. Solo quando la Palestina, la Palestina del futuro, sarà parte del mondo arabo sarà parte dei suoi problemi, ma anche della loro soluzione. Concluderò ribadendo il punto principale che voglio davvero affrontare stasera. Di fronte alle situazioni drammatiche c’è sempre il rischio delle illusioni. Non si può sottovalutare il dramma, la catastrofe umana a cui stiamo assistendo e purtroppo penso che quello che stiamo vedendo è solo l’inizio della catastrofe che Israele sta per imporre non solo alla Striscia di Gaza, ma anche alla Cisgiordania. Useranno gli avvenimenti come pretesto per cambiare politica anche in Cisgiordania. Il compito più urgente è cercare di fermarli con tutti i mezzi a nostra disposizione in questo Paese, per fare pressione per un intervento internazionale e porre fine a queste politiche genocide che, ribadisco, temo fortemente si estenderanno anche alla Cisgiordania. Parte di quello che dobbiamo sempre fare però è elaborare strategie per il futuro, perché le questioni fondamentali rimarranno anche quando questa particolare congiuntura finirà in un modo o nell’altro. Ed è questo tipo di approccio che, a mio avviso, ci può garantire che non stiamo perdendo la nostra bussola morale. Non lasciamoci scoraggiare da chi ci dice che sicuramente dopo quello che è successo il 7 ottobre non potremo dar lezioni di morale. Ricordiamo a tutti che nessuno ha messo in dubbio il diritto dell’Algeria ad essere libera, il diritto del Kenya ad essere libero, il diritto dell’India a scrollarsi di dosso il colonialismo, quali che fossero gli incidenti nella lotta i liberazione o i livelli di violenza o le forme dello scontro tra le forze anticolonialiste e quelle coloniali e se nessuno ha mai messo in discussione il diritto fondamentale alla liberazione e all’indipendenza di questi paesi, non dovremo farlo nemmeno nel caso della Palestina. Chi vuole vedere una Palestina pacifica dovrà parlare prima di tutto di una Palestina libera. Fonte: https://www.acro-polis.it/2023/12/13/chi-vuole-vedere-una-palestina-pacifica-dovra-parlare-prima-di-tutto-di-una-palestina-libera/ Aginform