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C'è Africa e Afriche: Conversazione con Piero Sunzini, direttore di Tamat

Franco Calistri

Con l’articolo di Patrizia Cecconi apparso sul numero scorso di micropolis e dedicato all’approfondimento della situazione di Israele e dei territori occupati, alla luce anche della recente riconferma alla guida dello stato di Israele di Benjamin Netanyau, abbiamo inteso riportare l’attenzione su una delle tante situazioni irrisolte di tensione internazionale che caratterizzano il pianeta e che, complice la drammatica vicenda della guerra in Ucraina, sembrano totalmente dimenticate. Se dalle rive del Mediterraneo scendiamo verso sud, attraversando i tropici fino a Capo di Buona Speranza, ci si accorge che, in questo caso, il cono d’ombra si proietta su di un intero continente: l’Africa. Cosa sta succedendo in questo continente di oltre 30 milioni di kmq, con una popolazione di circa 1,3 miliardi di persone e che, con gli attuali trend demografici, raggiungerà i 2,5 miliardi nel 2050 fino ai 4,5 miliardi nel 2100, ma che produce solo l’1,6% del Pil del mondo? Per capirne di più abbiamo rivolto qualche domanda a Piero Sunzini, direttore di Tamat, associazione non governativa da anni impegnata nella realizzazione di progetti di cooperazione internazionale in Africa, ma non solo. In non poche occasioni, quando ti si rivolge un invito del tipo “parliamo di Africa” tu storci il naso. Cosa non va in questo parlare “d’Africa”? Le Afriche sono tante, differenti e lontane tra loro. La distanza tra Dakar e Nairobi è di 6.227 km, tra Dakar e Parigi è di 4.207. La maggior vicinanza del Senegal con l’Europa non è solamente geografica, ma è culturale, di modelli economici di riferimento, d’organizzazione dello stato, di lingua. E poi le Afriche sono tante anche all’interno dello stesso Paese: il Burkina Faso è composto da più di 60 etnie che parlano oltre 80 lingue differenti, anche non comunicanti tra loro. La Tunisia è Africa, geograficamente. Tu pensi, però, che un tunisino sia contento se lo chiami africano? Tutto ciò per dirti che non esiste un’entità africana, ovviamente. Derubricare la complessità africana ad un unicum lo considero un atteggiamento che rischia di sconfinare in una forma di razzismo: tutti uguali, implicitamente inferiori. D’accordo, parliamo di Afriche. Però, pur in tutta la diversità e complessità di situazioni che attraversano il continente africano, oggi, drammaticamente, c’è un comune denominatore per tutta l’area, che si chiama guerra. Non c’è stato africano dove, attualmente, non sia in corso un conflitto armato, spesso di inaudita ferocia. Come ti spieghi tutto questo? Si, hai ragione, in Africa ci sono molti conflitti armati. Anche in questo caso, però, evitiamo di omologare lo scenario continentale. La guerra in Etiopia non è assimilabile al conflitto in Somalia, dove i signori della guerra fanno gli interessi di clan, su base etnica, in uno stato fallito. Il conflitto nel nord del Mozambico, nonostante la stessa radice jihadista, non è coniugabile con quello nel nord della Nigeria dove Boko Haram fa leva anche su atavici conflitti etnici tra hausa e igbo per catalizzare le attività terroristiche. Semplificare, quindi, “l’Africa come un continente in guerra”, può portare a commettere ancora errori nella comprensione della complessità del continente. Per rispondere alla tua domanda, dunque, mi concentro su un’area geografica specifica, l’Africa occidentale. In particolare, il Sahel; mi riferisco al Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad… Realtà territoriali sufficientemente omogenee: tutte colpite da cambiamenti climatici che sconfinano anche in fenomeni di desertificazione importanti, da un aumento della popolazione tale da raddoppiare il numero degli abitanti negli ultimi 25 anni, con una storia molto simile che, negli ultimi 150 anni, le hanno viste colonie francesi e, dopo l’indipendenza del 1960, comunque subordinate a una forte influenza francese, fino al recente passato quando qualcosa si è incrinato. Nonostante ciò, i conflitti armati sono caratterizzati da differenti intensità, nei differenti paesi. Il Senegal è un paese che vive una guerra civile dal 1982, nella regione meridionale della Casamance – animista e cristiana, in un paese a maggioranza musulmana – che reclama una maggiore autonomia dal governo centrale accusato di avere un atteggiamento neocolonialista nello sfruttamento di legname e petrolio, di cui poco beneficia la popolazione locale. Una guerra che ha causato morti, spesso dimenticata e che non è mai entrata nelle agende internazionali come priorità. È una guerra a “bassa intensità”. Tutt’altro scenario in Mali. Dall’indipendenza, le cosiddette “guerre tuareg” hanno contrapposto le popolazioni del nord – tuareg e arabi, “bianche” – a quelle del sud, prevalentemente bambara e malinké, “nere”. La richiesta d’autonomia, da una parte, la volontà di conservare uno stato unitario e centralista, dall’altra. L’assassinio del Colonnello Gheddafi ha creato un nuovo picco di questo conflitto. Milizie libiche d’origine tuareg, ben armate e addestrate, hanno lasciato la Libia e si sono riversate nel Mali, stringendo alleanze strategiche con frange jihadiste facenti riferimento principalmente ad Al-Qaeda nel Maghreb Islamico. Hanno proclamato unilateralmente l’indipendenza dell’Azawad, Mali del nord, nel luglio 2012. Solo l’intervento dei militari francesi, nel 2013, accolti come liberatori dalla popolazione maliana, ha prima bloccato l’avanzata dei tuareg-jihadisti verso il centro-sud del paese e poi permesso la riconquista di tutte le regioni del nord Mali, fino a Kidal. La presenza francese, però, non è riuscita in questi dieci anni di permanenza a risolvere il contenzioso. L’analisi della realtà evidenzia che, nonostante un dispiego di forze notevoli e la perdita di 58 militari, è coincisa con il dilagare del fenomeno terrorista in tutto il Mali (non abbiamo però la controprova di cosa sarebbe successo senza questa presenza. È verosimile che gli islamisti sarebbero arrivati fino alla capitale Bamako). Il sentimento della popolazione maliana, tuttavia, è mutato: i francesi non sono più percepiti come liberatori ma come oppressori e ospiti non desiderati. Questo sentimento si è fortemente acuito con la presa del potere da parte del colonnello Assimi Goïta, agosto 2020, consolidato da un secondo colpo di stato nel maggio 2021 e l’auto proclamazione dello stesso Goïta a Presidente della Repubblica. Fino all’interruzione della cooperazione militare franco-maliana, col ritiro dei militari francesi da tutte le missioni sul suolo maliano, nel 2022. Il vuoto militare è stato immediatamente colmato dall’arrivo dei mercenari russi, legati alla società privata Wagner che, affiancando le forze armate maliane (FAM) nella lotta al terrorismo jihadista, hanno manifestato comportamenti sul campo che hanno lasciato qualche perplessità, sul fronte del rispetto dei diritti umani. Si è assistito alla radicalizzazione della “guerra”. Da una parte, il fronte jihadista è arrivato ad attaccare il quartier generale delle FAM, a Kati, a soli quindici km da Bamako; dall’altro, la presenza di “Wagner” ha incrementato il numero di azioni sanguinarie. A fine marzo del 2022 a Moura, nella regione di Mopti, le FAM sono state accusate di aver ucciso circa 300 civili, alcuni dei quali sospetti combattenti islamisti, giustiziandoli dopo gli arresti. Human Rights Watch non ha esitato a dichiarare questo intervento come un crimine di guerra. Un conflitto quindi di inaudita ferocia, per usare le tue parole. Infine, il caso Burkina Faso: il Paese degli “uomini integri” per 27 anni è stato governato col pugno di ferro da Blaise Compaore, l’assassino di Thomas Sankara, cacciato da una rivoluzione popolare, nel novembre 2014. Dopo un periodo di transizione, le elezioni del 2015 e poi ancora del novembre 2020 hanno eletto presidente Roch Marc Christian Kaboré. Nel suo mandato ha provato a rompere gli equilibri di potere preesistenti che avevano fatto del Burkina Faso il feudo preferito degli interessi francesi in Africa occidentale. L’entourage dell’ancien régime, però, non ha accettato passivamente il nuovo corso. I trafficanti illegali – di sigarette, droga, oro e sempre più d’esseri umani -, storicamente presenti nelle regioni del nord, che barattavano con Blaise Compaore la pace sociale con la garanzia di una sorta d’immunità per i loro “affari” da parte del governo centrale, senza più un riferimento certo, hanno accettato le lusinghe dei gruppi armati del confinante Mali. Trasformandosi, in questo modo, da predoni a “militanti”. Hanno avuto gioco facile anche a far proselitismo tra i giovani disoccupati e diseredati del Nord, proponendo loro un salario, con l’arruolamento nelle milizie jihadiste. Una strategia di successo che ha allargato il raggio d’azione del conflitto e dell’instabilità a tutto il paese, mettendo in difficoltà la gestione del Presidente Kaborè che è stato rovesciato, manu militari, nel gennaio 2022, dal colonnello Damiba che, non avendo raggiunto i risultati promessi nella lotta al terrorismo, è stato a sua volta vittima di un nuovo colpo di stato del colonnello Ibrahim Traoré, a settembre 2022. Un conflitto armato molto violento, con molti morti anche tra i civili, che ha generato più di due milioni di sfollati interni e che sta anche condizionando fortemente le scelte di partenariato internazionale del Burkina Faso. Si sta prefigurando, infatti, uno “scenario maliano” nei riguardi delle forze armati francesi residenti, alle quali il governo ha già intimato di lasciare il paese entro la fine del presente mese di febbraio. Tutto ciò ci porta ad un’altra questione, il fallimento di quello che potremmo definire, seppur rozzamente e con beneficio d’inventario, il pensiero panafricano, alla nascita dell’Organizzazione dell’unità africana (OUA) a ridosso fine ultimi processi di decolonizzazione. Ma, ancora, la memoria va ai padri del pensiero africano, da Sekou Tourè a Kawame Nkruma, a Patrice Lumumba, passando per Thomas Sankara, Amilcar Cabral, Stephen Biko e Nelson Mandela. Ma anche a quei movimenti di resistenza di popolo che determinarono la fine definitiva del colonialismo. Cosa resta di tutto questo? Poco. Resta molto poco. Lasciando stare i riferimenti alla lotta all’apartheid, che fa storia a sé in Africa, mi citi soprattutto leader delle lotte d’indipendenza, quando ideologie e speranze di sviluppo si fondevano. La fase storica, d’altronde, è drasticamente cambiata anche per le Afriche. Alle conseguenze della caduta del muro di Berlino sono seguiti gli anni dei Piani d’aggiustamento strutturale della Banca Mondiale, la crisi economica mondiale e il Covid, che hanno impattato sulle già fragili economie delle Afriche. La spinta ideale del panafricanismo ha lasciato il campo a posizioni più “pragmatiche” del carpe diem. Una battuta su Thomas Sankarà però la faccio. Nonostante le mille contraddizioni e le difficoltà di varia natura, il Burkina Faso resta un paese differente tra quelli saheliani. Il rapporto critico con le istituzioni, il bisogno, pur inespresso, di ricerca di una migliore equità sociale, un mondo associativo ricco e militante sono atteggiamenti ancora presenti nel tessuto sociale. Tutto ciò era nel codice genetico della rivoluzione sankarista. Il nuovo presidente Traoré, dopo anni d’oblio, in questi primi mesi di governo, sta rispolverando parole d’ordine care a Sankarà: contro la corruzione, per una partecipazione popolare alla cosa pubblica e per nuovi partenariati internazionali che rifiutino qualsiasi approccio neocoloniale. La storia ci dirà se trattasi di un fuoco di paglia e mera propaganda politica o l’avvio di un nuovo corso. Quindi a fronte di una endemica debolezza e fragilità delle borghesie nazionali, la parola è passata alle lobby delle armi ed i militari, o meglio sarebbe chiamarli “signori della guerra”, sono diventati i veri padroni dell’Africa? Più che delle borghesie nazionali parlerei soprattutto degli stati nazionali che, nella generalità dei casi, hanno deluso le aspettative scaturite dai processi d’indipendenza: garantire i diritti all’educazione, sanità, lavoro, sicurezza alimentare a tutta la popolazione. Uno stato con difficoltà, organizzative e finanziarie, genera instabilità politica nella quale s’insinua il malaffare e il revanchismo di ogni genere, etnico, politico, di rapporti internazionali. In questi contesti i più forti prevalgono. I militari assurgono spesso a salvatori della patria contro i corrotti, i terroristi, i nemici del popolo, ecc… Le realtà sono spesso differenti da quelle propagandate. In Burkina Faso, per esempio, si mormora che il presidente Damiba, il golpista del gennaio 2022, sia fuggito con l’elicottero in Togo, con un “bottino” sottratto alle casse dello stato. Ancora, in questi giorni, si legge dell’arresto del direttore generale della Lotteria nazionale accusato di aver consegnato personalmente circa mezzo milione di euro, in Fcfa, nelle mani di Damiba. Ti racconto ciò per sottolineare il clima di presunta impunità nel quale, spesso, i militari al potere pensano di poter operare. È vero, dunque, come dici, che i “signori della guerra”, in molti casi, sono i vertici delle forze armate golpiste, spesso affiancati da forze militari straniere. Anche quest’ultime hanno cambiato connotazione e non soggiacciono necessariamente a logiche di accordi tra stati. Si accresce la presenza di mercenari che, pur avendo una nazionalità di riferimento, non rispondono automaticamente allo stato estero d’appartenenza, almeno ufficialmente. E qui veniamo ad un altro punto. Non ritieni che oggi il continente africano stia subendo un secondo e, per certi versi, più pesante e brutale processo di colonizzazione, con attori internazionali ovviamente diversi da quelli del passato e ciascuno con modalità diverse che, per tornare al punto di partenza della nostra conversazione, accentuano e sfruttano a loro vantaggio “le Afriche”? Le “periferie” del mondo, come la maggior parte dei paesi africani, non sono tali perché poco integrate nell’economia mondiale, come recita la vulgata comune ma, al contrario, è proprio l’integrazione nelle relazioni economiche internazionali che favorisce il perdurare del loro stato d’arretratezza economico-sociale. Nonostante lo scenario di molte regioni africane sia mutato significatamene da quando Samir Amin scrisse lo “sviluppo ineguale”, la sua analisi di fondo, però, non è così fuori scala e fuori dal tempo; “centro e periferia” non sono in contrapposizione, anzi sono in una sorta di sinergia funzionale, che è la condizione necessaria perché l’accumulazione capitalistica possa continuare. Possiamo contestare, infatti, l’assunto di Amin che individua l’arretratezza di questi paesi come una soluzione ottimale al declino capitalista, almeno nel medio termine, con la creazione di alti tassi di profitto, giocando su una fase “produttiva” in periferia con salari più bassi? Hai ragione a citare nuovi neo-colonizzatori. Cambiano, infatti, i nomi: Cina, Turchia, Russia. Possono cambiare gli approcci e le sfumature ma il meccanismo di sfruttamento di base è sempre lo stesso: la ricerca di materie prime e bassi salari. Il quesito all’ordine del giorno, quindi, è sempre lo stesso per i paesi delle Afriche: che fare? Una bozza di risposta la troviamo analizzando il profilo di qualche paese africano. La RD del Congo, ad esempio, ha una superficie di suoli coltivabili che potrebbe da sola sfamare tutta l’attuale popolazione africana e possiede l’80% delle riserve mondiali di Coltan. Se aggregassimo, poi, i dati di tutti i paesi, le potenzialità sarebbero decuplicate: l’Africa è più grande di Europa, USA e Cina messi insieme, con i suoi 30milioni di km2; possiede il 90% delle riserve di materie prime, il 40% d’oro, il 33% di diamanti e il 60% delle terre coltivabili, in un mondo di 8 mld di persone da sfamare, in costante crescita. Con questi numeri, il continente potrebbe perseguire una sua autonomia economico-sociale? E se così fosse, siamo sicuri che sarebbero proprio gli africani a subirne le conseguenze maggiori, nello scenario mondo? Samir Amin era convinto del contrario. La sua ricetta si basava su una disconnessione delle “periferie dal centro”. Ai popoli del continente, quindi, la preparazione di un buon piatto per risolvere i problemi delle Afriche. E mentre accade tutto ciò, le stelle (quelle della bandiera dell’Europa) stanno a guardare. Cosa potrebbe fare e non fa l’Europa e soprattutto i paesi del Mediterraneo, a partire dall’Italia? Non stanno solo a guardare, in alcuni paesi saheliani vengono messe alla porta. Parlo della Francia, ovviamente, la cui politica condiziona anche quella dell’UE, soprattutto nel Sahel. L’UE nel Sahel è un indicatore dell’inadeguatezza della nostra istituzione sovra-nazionale nel continente che, pur restando il maggior donatore internazionale delle Afriche, seguita a perdere peso politico, anche a queste latitudini. Per risponderti sull’Italia, mi rifaccio ancora al Sahel. La ex-Vice Ministra (2018-‘21) della cooperazione internazionale, Emanuela Del Re, attuale rappresentante speciale per il Sahel dell’UE, aveva definito il Sahel come la “frontiera sud dell’Europa”. Un’intuizione importante. Un riconoscimento significativo, quindi, della strategicità della regione, anche al di là delle problematiche legate ai flussi migratori. Le recenti aperture di ambasciate italiane in Niger, in Burkina Faso e in Mali vanno lette in questa direzione. Anche Marina Sereni, a lei succeduta, aveva avallato questa strategia. Poi è arrivata l’emergenza Ucraina … e tutti si sono dimenticati della “frontiera sud”, ancora una volta. Le Afriche sono presto ritornate a essere individuate solo come un magazzino dove attingere nei momenti di bisogno. Questo il senso delle missioni di Draghi e Di Maio, in Algeria il primo e in Congo e Angola il secondo, e di Meloni più recentemente in alcuni paesi del Maghreb, per andare a questuare gas e petrolio. Infine, a chiusura di questa conversazione, non poteva mancare una domanda sulla cooperazione internazionale. Riesci a farci sinteticamente un bilancio dell’impegno, in particolare italiano, su questo tema, della sua evoluzione in questi ultimi anni, delle storture e ritardi e dei possibili rimedi? Ti sei lasciata per ultima la domanda delle “cento pistole”. Ci vorrebbe però un’altra intervista per risponderti compiutamente. Lo faccio brevemente, invece, delineandoti alcune tendenze solamente con qualche titolo. La cooperazione internazionale allo sviluppo, e sottolineo sviluppo, è sempre più difficile da realizzare nelle molte Afriche colpite da conflitti armati. Insicurezza si coniuga male con sviluppo. Nei paesi saheliani l’asse degli interventi si sta spostando sugli aiuti d’emergenza dimenticando lo sviluppo. Le guerre e i disastri ambientali generano sfollati e flussi migratori importanti e di difficile gestione. Gli aiuti di prima emergenza – alimentari, sanitari, abitativi, ecc…- sono quelli che stanno caratterizzando, e caratterizzeranno sempre più, le politiche d’aiuto nelle Afriche. Mi chiedi di quella italiana. La riforma del 2014 che ha istituito l’Agenzia della cooperazione (AICS) non è stata un successo. Già allora qualcuno diceva che eravamo in controtendenza: alcuni grandi paesi dell’OCSE chiudevano le Agenzie e noi l’aprivamo. L’AICS, nonostante l’autonomia sancita per legge, sta rischiando di diventare un doppione, mal riuscito, della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del MAECI che non ha cessato d’esistere, ovviamente, e che ha un peso crescente nelle scelte politiche della cooperazione. Il personale a Roma e nelle sedi periferiche dell’AICS non è quantitativamente sufficiente per svolgere i compiti affidatigli. A livello qualitativo le carenze sono evidenti, soprattutto se comparate con lo standard di cooperazioni di paesi importanti. Gli stanziamenti, nonostante un trend leggermente positivo degli ultimi anni (chissà cosa succederà con questo governo!!!), rimangono al di sotto dello 0,30% del PIL. Nemmeno la metà del target dello 0,70% definito dai paesi OCSE. Il riparto di questi fondi, poi, penalizza fortemente le attività delle ONG che ricevono una percentuale irrisoria di queste risorse, a vantaggio delle agenzie internazionali e dei crediti d’aiuto ai singoli stati. Le stesse ONG, per mille ragioni, non vivono un momento di sviluppo, nemmeno in termini di riflessioni strategiche e capacità operative sul campo. La cooperazione decentrata sta scemando – calo un velo pietoso sullo scenario umbro pur non addebitando le responsabilità alla sola giunta Tesei – anche perché le risorse per gli EELL e le Regioni sono ormai residuali e episodiche. Il ruolo di catalizzatore delle iniziative, assegnato a Cassa Depositi e Prestiti dalla nuova legge, stenta a decollare. I bandi dell’AICS dedicati al “nuovo attore di cooperazione internazionale” – il settore privato – sono stati un fallimento; evidenziando che la legge, aggiungendo questo nuovo “attore” di cooperazione, perseguisse più una scelta ideologica che di crescita dell’efficienza del sistema. Abbiamo anche assistito alla delega della gestione di una parte dei fondi della cooperazione internazionale allo sviluppo al Ministero dell’Interno … che altro dire? Speriamo che la cooperazione italiana abbia toccato il fondo… non ne sono certo. Fonte: micropolis C’è Africa ed Afriche – Micropolis (micropolisumbria.it)