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Dov'è la vittoria?

Domenico Gallo*

La settimana appena trascorsa ha visto l’intrecciarsi polifonico di voci delle autorità politiche, dei massimi dirigenti delle istituzioni europee, di capi di Stato, di vicecapi, dei plenipotenziari delle principali nazioni occidentali e si è conclusa con la sfida quasi in diretta fra Putin e Biden il 21 febbraio. Nel campo occidentale tutti hanno cantato in coro appassionatamente l’inno alla guerra in corso invocando la vittoria. Quando più Nazioni si affacciano sul palcoscenico della Storia e si agitano invocando la vittoria vuol dire che la pace non è a portata di mano. La storia ci insegna che la mitologia della vittoria non porta bene. Soprattutto non porta né la pace, né la giustizia. Annunciando l’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno del 1940, Mussolini così si espresse: La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo.” In questo tempo sciagurato assistiamo allo stesso furore bellico e alla stessa incapacità della politica di fare i conti con la realtà e di articolare un progetto di futuro. Ha cominciato il Parlamento Europeo con la Risoluzione approvata giovedì 16 febbraio. Al punto 8, il PE: “sottolinea che l’obiettivo principale dell’Ucraina è vincere la guerra contro la Russia, intesa come la capacità dell’Ucraina di spingere al di fuori del proprio territorio riconosciuto a livello internazionale (quindi compresa la Crimea che da otto anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa) tutte le forze russe e i loro associati e alleati; ritiene che tale obiettivo possa essere conseguito solo attraverso la fornitura continua, sostenuta e in costante aumento di tutti i tipi di armi all’Ucraina, senza alcuna eccezione.” Per non lasciare adito ad alcun dubbio, il PE, al punto 18 ribadisce: “il suo invito agli Stati membri ad aumentare e ad accelerare in modo sostanziale il loro sostegno militare per consentire all’Ucraina non solo di difendersi dagli attacchi russi, ma anche di riconquistare il pieno controllo di tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale; invita gli Stati membri, gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada (.)a prendere seriamente in considerazione la possibilità di fornire all’Ucraina aerei da combattimento, elicotteri e adeguati sistemi missilistici occidentali e un sostanziale aumento delle consegne di munizioni.” Il Giorno successivo è iniziata a Monaco la Conferenza sulla sicurezza internazionale che ha visto riuniti per tre giorni intorno allo stesso tavolo i massimi leader mondiali, che, con la sola eccezione del delegato cinese, hanno cantato in coro sulla musica intonata da Zelensky, che ha esordito paragonandosi ad un eroe biblico, il Davide ucraino, destinato a sconfiggere il Golia russo. Il Davide del mondo libero ha aggiunto che gli ucraini vogliono vedere sconfitti tutti i Putin del mondo. “Non c’è alternativa: l’Ucraina deve vincere. Non c’è alternativa: l’Ucraina deve entrare nell’Ue. E non c’è alternativa: l’Ucraina dovrà entrare nella Nato”. Sulle note di Zelensky hanno danzato il Presidente francese Macron, che eroicamente ha dichiarato che non è il momento del dialogo con Mosca, il Cancelliere tedesco Scholz, la Presidente della Commissione UE, Ursula von der Layen: “Dobbiamo raddoppiare e continuare il massiccio sostegno militare che è necessario per permettere all’Ucraina di vincere”.  Il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltemberg/Stranamore, ha esortato ad intensificare l’aiuto militare all’Ucraina, dichiarando che l’escalation del conflitto è un rischio che bisogna correre. La vice Presidente USA, Kamala Harris, ha introdotto un moto di sdegno, denunciando con fermezza i crimini contro l’umanità commessi dai russi, ed ha invocato la giustizia internazionale, dimenticando curiosamente che il suo paese non accetta che nessun Tribunale internazionale possa giudicare i crimini americani commessi in Afganistan o in Irak e perseguita chi osa rivelarli, come Julian Assange. Inutile dire che il G7 dei ministri degli esteri, riunitosi nello stesso contesto, ha ribadito la determinazione dei paesi membri a continuare il sostegno militare a Kyev. Per completare il quadro, la mattina di lunedì 20 gennaio Biden è arrivato a Kyev promettendo l’aiuto USA fino alla vittoria ed il giorno successivo davanti al castello di Varsavia il Presidente degli Stati Uniti ha tenuto uno storico discorso, intestandosi il ruolo di difensore della libertà. Purtroppo, per quanto possa essere salda la determinazione a conseguire la vittoria e per quanto possano essere autorevoli i suoi cantori, non si può prescindere dal fare i conti con i fatti. I militari li sanno fare meglio dei politici. Se il capo di Stato maggiore dell’esercito statunitense, il gen. Mark Milley insiste: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale»,  la scelta politica di proseguire la guerra ad oltranza (finchè Zelensky vorrà) significa puntare ad un massacro senza senso e senza nessuno sbocco, come fu la guerra di Corea, che si concluse con un armistizio lasciando inalterata la linea del fronte, dopo aver provocato quasi tre milioni di morti. Ciò perché come ci ha ammonito il gen. Milley: «se è praticamente impossibile» che la Russia conquisti l’Ucraina, cosa che «non succederà», resta «pure estremamente difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Mosca dalle loro terre». La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea – scrive il generale Antonio Li Gobbi su Analisi Difesa –  che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura. Una guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti. L’indifferenza dei leader politici europei per i costi umani delle loro scelte e la cecità di fronte alla realtà della guerra in corso, ha lo stesso bagliore sinistro delle parole di Mussolini che profetizzava la vittoria. Resta la domanda: dov’è la vittoria? *Nato ad Avellino l'1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all'Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell'arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022) Fonte: Domenicogallo.it