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Burkina Faso, processo a Blaise Compaoré. Dopo 34 anni di vergogna

Piero Sunzini*

Quasi due mesi fa, arriva un messaggio nella segreteria telefonica. Soumana mi chiede di essere richiamato quanto prima. Lo faccio subito. “C’è stato un ricorso al Consiglio costituzionale. Il processo a Blaise rischia di saltare”. Rimango basito e cerco di capire. Si tratta del processo a Blaise Compaoré e ai suoi complici. In effetti, avevamo discusso molto sulla reale utilità di questo processo, durante la mia ultima missione a Ouagadougou lo scorso novembre. Soumana e i suoi amici, però, erano irremovibili: questo processo al presidente-dittatore che ha governato col pugno di ferro il Burkina Faso per 27 anni deve essere fatto. In tempi brevi, per arrivare al giudizio di colpevolezza. Un atto formale che certifichi una realtà storica che tutti i burkinabé e tutto il mondo conoscono: il presidente Thomas Sankara, icona panafricana, è stato assassinato durante un colpo di stato che ha portato Blaise Compaoré al potere, mettendo fine al processo rivoluzionario cominciato il 4 agosto 1983. Nemmeno la complessa situazione sociopolitica del paese è ritenuta un deterrente per la rinuncia al processo, o quanto meno al suo rinvio a tempi più tranquilli. La situazione in Burkina Faso, infatti, è molto complicata, soprattutto dopo l’attentato del 14 novembre 2021 a Inata - un piccolo villaggio nel nord, tra Djibo e Arbinda, sulla strada di Gorom Gorom, collocato nella zona arida e predesertica, detta delle “tre frontiere” di Burkina Faso, Mali e Niger – che aveva fortemente scioccato i burkinabé e anche la comunità internazionale. Ha generato un grande senso di smarrimento in tutta la popolazione locale. In particolare tra i cittadini di Ouagadougou un effetto devastante, per il livello emotivo originato dalle cause dell’ennesimo attacco jihadista contro militari. Lo sconcerto, questa volta, non è tanto per le dimensioni dell’attentato, comunque gravi – 53 morti di cui 4 civili e 49 militari - quanto per le notizie sconvolgenti in arrivo dal “fronte” che sono subito confermate anche dal presidente della Repubblica, Kaborè: “disfunzioni” nella lotta al terrorismo che devono “essere corrette”. Sembra, infatti, che il distaccamento della gendarmeria nazionale di Inata abbia dovuto fronteggiare, più che le bande terroriste jihadiste, soprattutto la mancanza di viveri per i militari, da almeno qualche settimana. Queste informazioni, dopo il primo sentimento di sgomento e di dolore per la morte di giovani vite, hanno provocato un senso di rivolta popolare sfociato in manifestazioni violente di piazza, con la richiesta di dimissioni del presidente Roch Marc Christian Kaboré. L’opposizione parlamentare, soprattutto quella legata all’ancien régime di Blaise Compaoré, ha appoggiato le richieste della piazza, proponendo un “governo d’unità nazionale” per affrontare l’emergenza del paese e per traghettarlo a nuove elezioni presidenziali. Bloccare il processo? In questo contesto, si sono sentite molte voci, soprattutto di intellettuali locali, che hanno evidenziato che sarebbe stato inopportuno continuare “il processo Compaoré”: altra paglia sul fuoco già acceso nelle strade delle maggiori città del Burkina Faso. Già allora, Soumana aveva rifiutato in maniera categorica queste posizioni e con tono perentorio l’ho sentito più volte affermare che “…il paese ha bisogno di quest’atto di giustizia per potere ricominciare con basi solide, nonostante siano passati 34 anni dall’assassinino del presidente Thomas Sankara, il 15 ottobre 1987”. Il tribunale di Ouagadougou ha continuato l’iter processuale fin quando è stato costretto ad una prima interruzione, subito dopo il colpo di stato del tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba, che ha rovesciato il presidente eletto Roch Marc Christian Kaboré, lo scorso 24 gennaio. Soumana era stato, comunque, rassicurato dall’ascolto del primo discorso del nuovo uomo forte del paese, che aveva fatto riferimenti esplicitamente positivi all’esperienza di governo del periodo sankarista, favorendo la ripresa del processo. Più preoccupato dopo il giuramento di Damiba, il 16 febbraio, che ha generato una nuova interruzione. Gli avvocati del collegio di difesa di Compaoré, infatti, approfittando dell’assenza dal paese del presidente del Consiglio costituzionale, hanno presentato al suo vice una richiesta di controllo di legittimità costituzionale per un processo che avrebbe dovuto giudicare “attentati alla sicurezza dello Stato”, mentre il golpe del tenente colonnello Damiba, convalidato dal Consiglio costituzionale stesso, avrebbe costituito implicitamente, esso stesso, un “attacco alla sicurezza dello Stato”. Tutto ciò “consacra la presa del potere con la forza come modalità costituzionale di devoluzione del potere”, la tesi sostenuta dai difensori. Una argomentazione “infondata”, per il Consiglio costituzionale, che l’ha respinta e ha consentito la ripresa del processo. Soumana si è tranquillizzato. Il processo si è concluso. Blaise Compaoré, fuggito in Costa d’Avorio dopo i moti popolari dell’ottobre 2014 e residente ancora ad Abjdian dove ha ottenuto la cittadinanza ivoriana con l’intento di evitare il processo, non ha dunque assistito alle udienze. I suoi avvocati hanno fatto tutto il possibile per minimizzare la portata del processo, sminuendolo come un “processo politico”. Privo, quindi, di qualsiasi valore giuridico. Blaise Compaoré ha sempre negato di essere l’ideatore dell’assassinio di Thomas Sankara, il suo migliore amico. Allo stesso modo degli altri imputati. Compreso il generale Gilbert Diendéré, tra i leader più prestigiosi dell’esercito burkinabé nel 1987 e uomo forte nei 27 anni di gestione del potere di Compaoré. Anni di repressione e tortura per migliaia di burkinabé, caratterizzati dall’utilizzo dell’assassinio come arma di scontro politico. Dagli omicidi del comandante Jean-Baptiste Lingani e del capitano Henri Zongo, gli altri due leader del progetto politico sankarista insieme allo stesso Compaoré, eliminati perché non in linea con i processi di “rettificazione” e accusati di aver tramato contro il regime; all’assassinio del giornalista Norbert Zongo, che indagava su casi di corruzione e sulla strana morte dell’autista del fratello del premier, François Compaoré. In questi 27 anni, il nome di Blaise Compaoré è stato associato ai “signori della guerra” di molti paesi africani. Dal suo amico Charles Taylor, ex-presidente della Liberia, accusato di crimini contro l’umanità, attualmente detenuto a L’Aia dove è sotto processo dalla Corte Speciale per la Sierra Leone; al trafficante d’armi e diamanti Jonas Savimbi, leader dell’Unita in Angola. Il 6 aprile 2022, il tribunale militare di Ouagadougou ha emesso la sentenza: condanna all’ergastolo per l’ex presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré. Così come il comandante della sua guardia del corpo, Hyacinthe Kafando, e il generale Gilbert Diendéré. Quest’ultimo già processato dal tribunale militare per attentato allo Stato in quanto responsabile del fallito colpo di stato “revanscista” del 2015, e condannato a 20 anni di prigione. Sono condannati all’ergastolo per “attacco alla sicurezza dello Stato” Blaise Compaoré e Gilbert Diendéré, giudicati colpevoli di “complicità nell’omicidio”, e Hyacinthe Kafando di “assassinio”, sospettato di aver guidato il commando che ha ucciso Thomas Sankara. Altri otto imputati sono stati condannati a pene che vanno da tre a venti anni di carcere. Tre imputati sono stati assolti. La verità che i burkinabé conoscono da 34 anni oggi è una sentenza di tribunale. Non è mai troppo tardi per la giustizia. Soumana mi manda un messaggio: “La patrie ou la mort nous vaincrons”. *Fonte: Sinistra Sindacale