di Massimo Congiu -
I venti del cambiamento non soffiano in Ungheria dove il primo ministro Viktor Orbán si è affermato per la quarta volta consecutiva dal 2010, anno del suo ritorno al potere. L’ha fatto superando nettamente uno schieramento formatosi all’interno dell’opposizione con l’intento di porre fine al sistema illiberale creato dal premier.
È stata la prima volta che i partiti contrari alle forze di governo sono riusciti a coalizzarsi a livello nazionale per dire la loro alle elezioni. L’hanno fatto in sei creando un fronte variegato che comprende socialisti, verdi, liberali, centristi e i nazionalisti di Jobbik. Neanche questa operazione, però, è riuscita e, senza troppe sorprese, non è stato possibile avere la meglio sul leader del Fidesz che, a risultati noti, ha festeggiato con i suoi parlando di “vittoria ottenuta contro tutti”. Contro “Uniti per l’Ungheria”, tale il nome del blocco d’opposizione, e contro “il globalismo, contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino”, ha affermato raggiante il vincitore delle elezioni mostrando di considerare l’esito del voto anche come un successo in campo internazionale.
Péter Márki-Zay, candidato premier della parte contendente, ha riconosciuto la sconfitta con considerazioni amare: ha infatti parlato di sistema “ingiusto e disonesto”; un sistema all’interno del quale, a suo modo di vedere, non è stato possibile fare di più.
Conservatore cattolico, sindaco di Hódmezővásárhely, piccolo centro abitato dell’Ungheria del Sud, Márki-Zay aveva prevalso alle primarie svoltesi l’autunno scorso per scegliere l’uomo che avrebbe dovuto rappresentare la coalizione al voto, e contendere a Orbán la poltrona di primo ministro. In lui l’opposizione aveva visto l’uomo ideale, in quanto capace di rivolgersi a un elettorato più ampio: sia di centro-sinistra che di destra, capace di farsi capire nelle città e nelle campagne, ma la cosa non ha funzionato e c’è già chi, all’interno del blocco, mormora che in fondo non era il candidato giusto.
I sostenitori di Uniti per l’Ungheria si aspettavano un risultato ben diverso, e ora sono sconfortati; molti di loro esprimono sui social amarezza e abbattimento. Altri affermano, sugli stessi circuiti, che questa coalizione era inadeguata. Prometteva di cambiare il Paese, di cancellare le leggi ingiuste di Orbán, in caso di vittoria. Sottolineava il suo impegno contro la corruzione attribuita al sistema, intendeva ripristinare lo Stato di diritto, ristabilire la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura, riscrivere la Costituzione anche per consentire l’elezione diretta del capo dello stato e cambiare la legge elettorale. Voleva infatti un meccanismo di voto proporzionale al posto di quello misto, attualmente in vigore, che assicura al Fidesz una maggioranza di due terzi col 40% dei consensi espressi nelle urne dagli aventi diritto. Ora tutto ciò appare troppo lontano.
L’opposizione deve accontentarsi solo dell’esito del referendum, quello sulla cosiddetta legge anti-Lgbtq che si è svolto lo scorso 3 aprile, in concomitanza con le elezioni. È risultato nullo per mancanza del quorum, ma la cosa non sembra intaccare granché la vittoria del premier che ha ricevuto le congratulazioni di Putin, di Salvini, Meloni, Marine Le Pen e del suo omologo sloveno Janša.
Questa vittoria consolida la valenza iconica di Orbán all’interno della destra europea. “Il Fidesz è il futuro dell’Europa” ha detto con toni trionfalistici; quelli di chi ha in mente di fondare un forte partito della destra europea che non sia una pura alternativa ma abbia un ruolo egemone nel Continente.
Insomma, Orbán ha vinto di nuovo, sembra che la posizione di neutralità da lui assunta nel frangente della guerra in Ucraina – ambigua quanto si vuole – l’abbia aiutato a convincere molti suoi connazionali a rinnovargli la fiducia. Nelle scorse settimane si era presentato agli elettori come uomo di pace, impegnato a tenere l’Ungheria fuori dal conflitto. Con la scelta adottata nel contesto bellico si è posto in una prospettiva divergente da quella degli altri membri del Gruppo di Visegrád e potrà risultare in un certo qual modo isolato in ambito europeo.
Il premier attacca l’UE ma sa di averne bisogno, di avere necessità soprattutto dei suoi fondi, a maggior ragione considerando le difficoltà economiche in cui si trova il Paese.
Infine, la sua nuova affermazione è tutto fuorché una buona notizia per le ONG, che vengono considerate dal governo ungherese come agenti stranieri, e Amnesty International teme nuovi e più pesanti attacchi ai diritti umani.