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UCRAINA, PERCHE’ LA CRISI

David Teurtrie Le Monde Diplomatique, febbraio 2022[1]

Nonostante si dica preoccupata della crescita delle tensioni in Ucraina, l’Europa è la grande assente alle negoziazioni tra Mosca e Washington. Allineandosi sulle posizioni USA, Parigi e Berlino hanno spinto la Russia a trattare direttamente con questi ultimi, ed hanno lasciato che il Vecchio Continente tornasse ad essere terreno di scontro tra le due potenze. Il fragore di stivali alle porte dell’Europa inquieta le cancellerie occidentali. Per cercare di ottenere garanzie sulla protezione della propria integrità territoriale, la Russia ha presentato agli americani due progetti di trattato volti a riformare l’architettura della sicurezza in Europa, e intanto ha ammassato truppe armate alla frontiera ucraina. Mosca esige un congelamento ufficiale dell’allargamento della NATO a est, il ritiro delle truppe occidentali dai paesi dell’Europa orientale e il rimpatrio in USA delle armi nucleari americane installate in Europa. Non potendo essere soddisfatte, queste richieste in forma d’ultimatum lasciano incombere la minaccia di un intervento militare russo in Ucraina. Due sono le interpretazioni: una, che Mosca stia giocando al rialzo per ottenere delle concessioni da parte di Washington e dell’Europa. L’altra, al contrario, che il Cremlino voglia sfruttare le orecchie da mercante [degli occidentali, NdT] per giustificare un passaggio ai fatti in Ucraina. In ogni caso, ci si chiede il perché del momento scelto da Mosca per ingaggiare questo rapporto di forza. Perché giocare a questo gioco così rischioso, e perché adesso? Dopo il 2014 le autorità russe hanno notevolmente aumentato la capacità della propria economia a superare una grave crisi, in particolare nel settore bancario e finanziario. La parte in dollari nelle riserve della banca centrale è fortemente diminuita. Nel portafogli dell’87% della popolazione si trova oggi una carta di credito nazionale, Mir. E se anche gli USA metteressero in atto la loro minaccia di escludere la Russia dal sistema Swift, come l’hanno fatto per l’Iran nel 2012 e nel 2018, i trasferimenti di denaro tra banche ed imprese russe potrebbero ormai essere effettuati tramite una messaggeria locale. La Russia si sente quindi meglio attrezzata per affrontare sanzioni severe in caso di conflitto. D’altra parte, l’ultima mobilitazione dell’esercito russo sulla frontiera ucraina nella primavera del 2021 ha portato al rilancio del dialogo russo-americano sulle questioni strategiche e della cybersicurezza. Evidentemente il Cremlino ha ritenuto che anche stavolta la strategia della tensione  possa essere l’unico modo per farsi ascoltare dagli occidentali e che la nuova amministrazione americana sia pronta a fare maggiori concessioni per concentrarsi sul crescente confronto con Pechino. Ora, Vladimir Putin sembra voler frenare quello che definisce il progetto occidentale di trasformazione dell’Ucraina in una “anti Russia” nazionalista[2]. In effetti Putin contava sugli accordi di Minsk, firmati nel settembre 2014, per ottenere un diritto di controllo sulla politica ucraina tramite le repubbliche del Donbass. Invece è accaduto il contrario: non solo l’applicazione degli accordi è a un punto morto, ma il presidente Volodymyr Zelensky, la cui elezione nell’aprile 2019 aveva fatto sperare al Cremlino di poter riallacciare un rapporto con Kiev, ha rafforzato la politica di rottura con il “mondo russo” avviata dal suo predecessore. Peggio ancora, la cooperazione tecnico-militare tra l’Ucraina e la NATO continua ad intensificarsi, mentre la Turchia, anch’essa membro dell’Alleanza, ha consegnato dei droni da combattimento che fanno temere al Cremlino che Kiev sia orientata a riconquistare militarmente il Donbass. Si tratterebbe dunque, per Mosca, di riprendere l’iniziativa quando è ancora in tempo. Ma, al di là dei fattori congiunturali all’origine delle tensioni attuali, è necessario constatare che la Russia sta semplicemente riproponendo le richieste che ha continuato a formulare dalla fine della guerra fredda, senza che l’Occidente le abbia mai considerate accettabili, e neanche legittime. Il malinteso risale alla caduta del  blocco comunista nel 1991. Secondo logica, la scomparsa del Patto di Varsavia avrebbe dovuto implicare la dissoluzione della NATO, creata per far fronte alla “minaccia sovietica”. Sarebbe stato opportuno proporre nuove formule d’integrazione per questa “altra Europa”, che apirava ad avvicinarsi all’Occidente. Il momento era tanto più adatto in quanto le élites russe – che sicuramente non erano mai stato così filo-occidentali – avevano accettato la liquidazione del loro impero senza combattere[3]. Tuttavia le proposte formulate in questa direzione, in particolare dalla Francia, furono sotterrate sotto la pressione di Washington. Non avendo nessuna intenzione di farsi rubare la loro “vittoria” su Mosca, gli USA spinsero l’allargamento a est delle strutture euroatlantiche ereditate dalla guerra fredda per consolidare la propria dominazione in Europa. A questo scopo disponevano di un alleato notevole, la Germania, desiderosa di riprendere la sua influenza sulla Mittel Europa.

Violazione del diritto internazionale

L’allargamento della NATO riprende a partire dal 1997, mentre i responsabili occidentali avevano promesso a Mikhail Gorbacev che non sarebbe stato fatto[4]. Negli USA alcune personalità di primo piano esprimono il loro disaccordo. George Kennan, considerato l’architetto della politica di contenimento dell’URSS, predice le conseguenze tanto logiche quanto nefaste di una simile decisione: «L’allargamento della NATO sarebbe l’errore più fatale della politica americana dopo la fine della guerra fredda. C’è da aspettarsi che questa decisione riattizzi le tendenze nazionaliste, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa; che rilanci un’atmosfera da guerra fredda nelle relazioni tra est e ovest e che orienti la politica estera russa in una direzione che non corrisponde affatto ai nostri auspici»[5]. Nel 1999 la NATO, che festeggia allora in pompa magna il suo cinquantenario, realizza il suo primo allargamento a est (Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca) e annuncia il proseguimento del processo fino alle frontiere russe. E soprattutto, l’Alleanza atlantica entra contemporaneamente in guerra contro la Yugoslavia, il che trasforma l’organizzazione da blocco difensivo ad alleanza offensiva, tutto ciò in violazione del diritto internazionale. La guerra contro Belgrado è condotta senza l’avallo dell’ONU, impedendo così a Mosca il ricorso ad uno degli ultimi strumenti da grande potenza che le restano: il suo diritto di veto al Consiglio di sicurezza. Le élites russe, che avevano puntato tanto sull’integrazione del loro paese all’Occidente, si sentono tradite: la Russia, all’epoca presieduta da Boris Eltsin – che aveva operato per l’implosione dell’URSS – si vede trattata non come un partner da ricompensare per il suo contributo alla fine del sistema comunista, ma come la grande perdente della guerra fredda, che deve pagarne il prezzo geopolitico. Paradossalmente, l’arrivo al potere di Putin l’anno dopo coincide con un periodo di stabilità nelle relazioni tra la Russia e l’Occidente. Il nuovo presidente russo moltiplica i gesti di buona volontà verso Washington dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Accetta l’installazione provvisoria di basi americane in Asia centrale e ordina, nello stesso periodo, la chiusura delle basi a Cuba ereditate dall’URSS e il ritiro dei soldati russi dal Kosovo. In cambio, la Russia desidera che l’Occidente accetti l’idea che lo spazio post-sovietico, che essa definisce come il suo “estero prossimo”, resti nella sua sfera di responsabilità. Ma, mentre le relazioni con l’Europa sono piuttosto buone, soprattutto con la Francia e la Germania, si accumulano invece gli elementi di incomprensione con gli Stati Uniti. Nel 2003, l’invasione dell’Iraq da parte delle truppe americane senza l’avallo dell’ONU costituisce una nuova violazione del diritto internazionale, denunciata di concerto da Parigi, Berlino e Mosca. Questa opposizione congiunta delle tre potenze principali del continente europeo conferma i timori di Washington sui rischi che un riavvicinamento russo-europeo farebbe pesare sull’egemonia americana. Negli anni successivi, gli Stati Uniti annunciano la propria intenzione di installare degli elementi del loro scudo antimissile in Europa dell’Est, il che contravviene all’atto fondatore Russia-NATO (firmato nel 1997) che garantiva a Mosca che l’Occidente non avrebbero installato nuove infrastrutture militari permanenti. D’altro canto Washington rimette in discussione gli accordi di disarmo nucleare: nel dicembre 2001 gli Stati Uniti si ritirano dal trattato Anti Ballistic Missile (ABM, 1972). Timore legittimo o mania di persecuzione, le “rivoluzione colorate” nello spazio post-sovietico vengono percepite a Mosca come operazioni destinate ad installare alle sue porte dei regimi filo-occidentali. Di fatto nell’aprile 2008 Wahsington esercita una forte pressione sui suoi alleati europei perché incoraggino le velleità della Georgia e dell’Ucraina ad entrare nella NATO, quando in realtà la grande maggioranza degli ucraini è, all’epoca, contraria all’adesione. Contemporaneamente gli Stati Uniti premono per il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, il che costituisce una nuova violazione del diritto internazionale perché dal punto di vista giuridico si tratta di una provincia serba. Avendo l’Occidente aperto il vaso di Pandora dell’interventismo e della rimessa in causa dell’intangibilità delle frontiere nel continente europeo, la Russia risponde intervenendo militarmente in Georgia nel 2008, e poi riconoscendo l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. Con questo il Cremlino fa capire che farà di tutto per impedire un nuovo allargamento della NATO a est. Ma rimettendo in causa l’integrità territoriale della Georgia la Russia viola a sua volta il diritto internazionale. Il risentimento russo raggiunge il punto di non ritorno con la crisi ucraina. A fine 2013, europei e americani sostengono le manifestazioni che portano al rovesciamento del presidente Viktor Yanukovich, benché la sua elezione nel 2010 fosse stata riconosciuta come rispondente agli standard democratici. Per Mosca, l’Occidente ha appoggiato un colpo di stato per ottenere, ad ogni costo, l’ingresso dell’Ucraina nel campo occidentale. Di conseguenza, le ingerenze russe in Ucraina – annessione della Crimea e appoggio militare ufficioso ai separatisti del Donbass – sono presentate dal Cremlino come una risposta legittima alla forzatura filo-occidentale di Kiev. Quanto a loro, le capitali occidentali denunciano una rimessa in causa senza precedenti dell’ordine internazionale del dopo guerra fredda. Gli accordi di Minsk, firmati nel settembre 2014, danno l’occasione alla Francia e alla Germania di riprendere la mano per trovare una soluzione negoziata alle ostilità nel Donbass. C’era voluto un conflitto armato per far uscire Parigi e Berlino dalla loro passività. Ma sette anni dopo il processo si è arenato. Kiev continua a rifiutarsi di concedere l’autonomia al Donbass, come era previsto dal testo. Di fronte all’assenza di reazione di Parigi e Berlino, accusate di allinearsi sulle posizione ucraine, il Cremlino cerca di trattare direttamente con gli americani, nei quali individua i veri padrini di Kiev. Ed inoltre Mosca si stupisce che l’Europa accettino senza reagire tutte le iniziative americane, anche le più discutibili, come ad esempio il ritiro di Washington dal trattato sulle forze nucleari intermedie (FNI), nel febbraio 2019, che avrebbe dovuto suscitare la loro opposizione dato che sono gli europei i primi obiettivi potenziali di questo tipo di armi. Secondo la ricercatrice Isabelle Facon, la Russia «ritiene, con un nervosismo evidente, che i paesi europei siano irrimediabilmente incapaci di autonomia strategica nei riguardi degli Stati Uniti e che rifiutino di assumere le loro responsabilità di fronte al degrado della situazione strategica ed internazionale[6].

Subalternità atlantica

Ancora più stupefacente: quando russi ed americani riprendono le trattative sulle questioni strategiche, con l’estensione di cinque anni del trattato di riduzione delle armi nucleari New Start, seguito dal vertice Biden-Putin del giugno 2021, l’Unione Europea, anziché spingere per una distensione delle relazioni con Mosca, rigetta il principio stesso di un incontro con il presidente russo. Per la Polonia, che insieme ad altri ha silurato questa iniziativa, «questo [avrebbe valorizzato] il presidente Vladimir Putin anziché punire una politica aggressiva»[7]. Questo rifiuto al dialogo contrasta con il comportamento dell’Europa nei riguardi dell’altro grande vicino dell’Unione europea, la Turchia. Nonostante il suo attivismo militare (occupazione del nord di Cipro e di una parte del territorio siriano, invio di truppe in Iraq, in Libia e nel Caucaso), il regime autoritario di Recep Tayyip Erdogan, d’altro canto alleato di Kiev, non è oggetto di alcuna sanzione. Nel caso della Russia, invece, l’Europa non ha altra politica che minacciare regolarmente una nuova serie di misure restrittive, a seconda delle azioni del Cremlino. Quanto all’Ucraina, l’Europa si limita a ripetere la litania della NATO della porta aperta, quando invece le grandi capitali europee, Parigi e Berlino in testa, hanno comunicato in passato la loro opposizione e non hanno in fondo nessuna intenzione di integrare l’Ucraina nella loro alleanza militare. La crisi nelle relazioni tra la Russia e l’Occidente dimostra che la sicurezza del continente europeo non può essere assicurata senza – e a maggior ragione contro – la Russia. Washington invece fa di tutto per favorire questa esclusione perché questo rafforza l’egemonia americana in Europa. Dal canto loro, gli europei dell’ovest, Francia in primis, hanno mancato di prospettiva e di coraggio politico per bloccare le iniziative più provocatorie di Washington e per proporre un quadro istituzionale inclusivo, che permettesse di evitare la ricomparsa di linee di frattura nel continente. Risultato di questa subalternità atlantica: francesi ed europei si fanno maltrattare dagli Stati Uniti. Il ritiro non concertato dall’Afghanistan, così come l’attuazione di un’alleanza militare nel Pacifico senza l’accordo di Parigi, sono gli ultimi episodi di questo atteggiamento disinvolto. Gli europei sono ormai spettatori delle trattative russo-americane sulla sicurezza del Vecchio Continente, con sullo sfondo le minacce di guerra in Ucraina. [1] L’articolo, tradotto dal francese, è stato evidentemente scritto prima dell’intervento russo in Ucraina (NdT). [2] Cfr Vladimir Putin, Sull’unità storica tra Russi e Ucraini, sito dell’ambasciata della Federazione russia in Francia, 12 luglio 2021. [3] Leggere Hélène Richard, Quando la Russia sognava l’Europa, Le Monde Diplomatique, settembre 2018. [4] Leggere Philippe Descamps, La NATO non si allargherà di un pollice verso est, Le Monde Diplomatique, settembre 2018. [5] George F. Kennan, A fateful error, The New York Times, 5 febbraio 1997. [6] Isabelle Facon, La Russia e l’Occidente; un allontamento crescente nel cuore di un ordine internazionale policentrico, Regards de l’Observatoire franco-russe, L’Observatoire, Mosca 2019. [7] Dichiarazione del primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, conferenza stampa a Bruxelles, 25 giugno 2021.