Michele Giorgio
Stati uniti, Israele, Emirati e Bahrein sono impegnati in una imponente esercitazione navale nelle acque cariche di tensione del Mar Rosso, finalizzata a mandare un avvertimento al loro comune avversario, l’Iran, in vista della ripresa il 29 novembre dei negoziati indiretti tra Washington e Tehran su un possibile ma difficile rilancio del Jcpoa, l’accordo del 2015 sul programma nucleare iraniano.
Si potrebbero definirle le manovre degli Accordi di Abramo firmati nel 2020 che, con la mediazione (e le forti pressioni) dell’ex Amministrazione Trump, hanno permesso a Israele di normalizzare le relazioni con quattro paesi arabi: Emirati, Bahrain, Marocco e Sudan. Una volta di più, gli Accordi di Abramo, confermano di essere non dei trattati di pace bensì un’alleanza militare. Israele ha già condotto esercitazioni con gli Emirati, quella in corso è la prima congiunta con il Bahrein.
A guidare le quattro marine è la V flotta degli Stati uniti, che opera in tutto il Medio Oriente e che ha la sua base nelle acque davanti al Bahrain, un piccolo arcipelago di eccezionale importanza strategica per Washington. Proprio la rilevanza della sua posizione nel Golfo garantisce una sorta di immunità al regno di re Hamad bin Isa al Khalifa che è accusato di violazioni dei diritti umani a danno degli oppositori politici e degli sciiti che formano la maggioranza della sua popolazione. L’esercitazione di cinque giorni prevede tattiche di abbordaggio, perquisizione e sequestro di navi sospette o ostili.
Conta però di più la collaborazione delle forze navali dei quattro paesi. Perché segnala a Tehran che questa un’alleanza militare entrerà in azione – assieme all’Arabia saudita – in caso di guerra. «È emozionante vedere le forze statunitensi addestrarsi con i partner regionali per migliorare le nostre capacità di sicurezza marittima collettiva», ha dichiarato il viceammiraglio Brad Cooper, comandante della V flotta. «La collaborazione marittima aiuta a salvaguardare la libertà di navigazione e il libero flusso degli scambi», ha aggiunto Cooper riferendosi con ogni probabilità alle esercitazioni navali avviate lunedì da Tehran nel Golfo di Oman e che sono volte a dimostrare che l’Iran è in grado di bloccare lo Stretto di Hormuz, attraverso il quale transita circa un quarto del petrolio mondiale.
Pur affermando di preferire la via diplomatica per la soluzione dei conflitti con Tehran, l’Amministrazione Biden negli ultimi mesi ha frenato la sua discontinuità dalle politiche mediorientali di Donald Trump. E si è avvicinata a gran passi alle posizioni israeliane, sia nei confronti dell’Iran che dei palestinesi.
Funzionari israeliani e americani in più occasioni hanno minacciato un’azione militare contro il programma nucleare iraniano se i negoziati sul Jcpoa dovessero fallire. Il mese scorso, gli Stati uniti hanno inviato bombardieri pesanti B-1, capaci di sganciare bombe nucleari, attraverso la regione con la scorta di F-15 israeliani e di velivoli di altri paesi alleati. Da parte sua Israele ha ospitato una massiccia esercitazione aerea multinazionale (con la presenza dell’Italia). Biden flette i muscoli. E sta adottando un linguaggio da falco anche il suo inviato speciale per l’Iran, Robert Malley, che appena qualche anno fa era considerato una colomba nelle questioni mediorientali tanto da risultare sgradito a Israele. Malley, che ieri ha cominciato una missione nella regione, ha fatto sapere che con Emirati, Israele, Bahrain e Arabia saudita discuterà «un’ampia gamma di problemi che riguardano i rapporti con l’Iran, comprese le sue attività destabilizzanti nella regione».
Fonte: Pagine Esteri - tratto dal Manifesto. 12 novembre 2021