di Gianmarco Pisa *
In attesa dei risultati ufficiali delle elezioni politiche in Israele (le quarte in due anni), alcune valutazioni possono essere anticipate: non si tratta solo delle osservazioni elettorali “della vigilia”, ma di una riflessione panoramica che, attraverso lo spaccato elettorale e il dibattito pubblico in corso nel Paese, può offrire un quadro della sua scena politica, di cosa sia, oggi, dall’interno, lo Stato di Israele.
A queste elezioni si è giunti dopo la rottura dell’accordo di governo faticosamente pattuito tra Benjamin Netanyahu, capo del governo uscente, e Benjamin Ganz, già capo di Stato maggiore, leader della formazione politica che aveva ottenuto un buon risultato nelle precedenti elezioni politiche, quel Blu Bianco, che aveva tuttavia dovuto pagare il prezzo di una aspra discussione interna e di una serie di strappi e lacerazioni che ne hanno pesantemente segnato il passo in questa campagna elettorale.
Come si intuisce - e come è stato riportato da alcuni osservatori - è stato lo stesso Netanyahu il “playmaker” di questa impasse, spingendo la trattativa sul passaggio decisivo dell’approvazione della legge di bilancio fino al punto di rottura e piegando l’equilibrio politico verso una ancora più accentuata polarizzazione.
La radicalizzazione dei toni, la polarizzazione degli schieramenti e l’avere incentrato il confronto pubblico sullo schema di un referendum sulla sua persona, se da un lato hanno avuto l’effetto di una personalizzazione deleteria del confronto politico, dall’altro hanno definito un terreno di gioco al premier uscente senza dubbio particolarmente congeniale. Anche al prezzo di una rilevante forzatura: si è trattato, infatti, nel caso di queste ultime del 23 marzo, delle quarte elezioni politiche, per il rinnovo della Knesset, il Parlamento di Israele, in meno di due anni; si è trattato, di fatto, di una sorta di referendum “pro” o “contro” la continuità al potere di Netanyahu, da 12 anni (15 anni in totale) al governo, sotto processo con accuse di corruzione e nel quadro di una strategia di gestione della pandemia rilevatrice di molti tratti del potere israeliano quale oggi è.
Per un verso, una strategia spregiudicata in relazione ai rapporti con le major di «Big Pharma» per disporre di quantitativi di vaccini tali da consentire una campagna di vaccinazione capillare (Israele è tra i primi Paesi al mondo a programmare una strategia di uscita dalle limitazioni imposte dalla pandemia e l’intera articolazione politica e mediatica sta letteralmente cavalcando l’onda con una vasta strategia di comunicazione e di propaganda).
Per l’altro, una strategia non meno radicale che sviluppa persino sul terreno della vaccinazione, della salute e della vita, la propria politica di colonialismo e di discriminazione nei confronti della popolazione palestinese sotto occupazione: solo a metà febbraio Israele ha permesso all’Autorità Nazionale Palestinese di far arrivare a Gaza le prime dosi di vaccino, un ritardo drammatico e scandaloso, che giunge a seguito, peraltro, delle critiche e delle proteste contro la decisione israeliana di escludere di fatto i palestinesi e le palestinesi della Cisgiordania e di Gaza dalla campagna vaccinale, sebbene, in base al diritto internazionale, in quanto forza di occupazione, proprio Israele ha il dovere di assistere dal punto di vista sanitario i e le palestinesi.
Aggravamento della occupazione e strategia della propaganda, come dimostra, peraltro, anche il fatto che, a fronte dei pochi vaccini fatti arrivare nei territori palestinesi sotto occupazione, lo stesso Israele avrebbe pianificato una campagna di immagine con la donazione di migliaia di vaccini ad una ventina di Paesi in giro per il mondo (sono stati indicati, tra gli altri, Etiopia e Kenia, Honduras e Guatemala, ma anche, in Europa, Ungheria e Repubblica Ceca). Dà l’idea dell’approccio israeliano al vaccino e della crescente radicalizzazione delle politiche contro i palestinesi, il fatto che sia circolata persino l’idea di usare il vaccino - letteralmente - come “merce di scambio” per il rilascio di prigionieri detenuti da Hamas. Non poche le violazioni di cui Israele continua a rendersi responsabile.
È questo lo scenario elettorale: la radicalizzazione e la polarizzazione spingono sempre più a destra l’asse politico di Israele. Lo mostrano anche le rilevazioni della vigilia: le forze di destra (Likud, Yamina, Nuova Speranza, Yisrael Beiteinu, Sionismo Religioso, Shas, Ebraismo Unito della Torah) sarebbero accreditate di 75-80 seggi, il centro - in effetti un centro-destra (Yesh Atid e Blu Bianco) di 20-25 seggi, la sinistra sionista (Laburisti e Meretz) di 10 seggi, la Lista Congiunta (sinistra non sionista) di 10 seggi. Significa che le intenzioni di voto portano, in un senso o nell’altro, più del 70% degli israeliani a schierarsi “a destra”.
Intenzioni di voto confermate nelle urne: con quasi il 90% delle schede scrutinate, il Likud sarebbe accreditato di circa 30 seggi, ma il partito, insieme con tutti i suoi alleati religiosi ultraortodossi e di estrema destra, non raggiungerebbe la maggioranza di 61 seggi, anche nel caso in cui la formazione Yamina, guidata da Naftali Bennett, che aveva peraltro escluso di sostenere il capo del governo uscente, si unisse ad un governo guidato dal Likud. Il Likud resterebbe comunque, di gran lunga, il primo partito, con il principale contendente, Yesh Atid, di Yair Lapid, fermo sotto la soglia dei 20 seggi. Ago della bilancia degli equilibri parlamentari, il piccolo partito arabo Ra’am, che potrebbe passare la soglia di sbarramento.
Con quasi il 90% delle schede scrutinate, il Likud avrebbe quindi 30 seggi; Yesh Atid 17; Shas 9; Blu Bianco 8; i Laburisti 7; Yamina 7; Ebraismo Unito della Torah 7; Yisrael Beiteinu 7; la Lista Congiunta 6; Sionismo Religioso 6; Nuova Speranza 6; Meretz 5; Ra’am 5.
*Resp. Comm. Esteri della Federazione PRC-SE di Napoli