di Nancy Fraser* -
Chiunque parli di "crisi", oggi, rischia di essere liquidato come un parolaio, data la banalizzazione che il termine ha subito attraverso il suo uso continuo e superficiale. Ma c’è un senso preciso in cui noi oggi stiamo effettivamente affrontando una crisi. Se la caratterizziamo con precisione e identifichiamo le sue dinamiche distintive, possiamo determinare meglio cos’è necessario per risolverla. Su queste basi, inoltre, potremmo intravedere un sentiero che ci guidi oltre l’attuale impasse, attraverso il riallineamento politico e verso la trasformazione della società.
A prima vista, l’attuale crisi sembra essere politica. La sua espressione più spettacolare è proprio qui, negli Stati Uniti: Donald Trump – la sua elezione, la sua presidenza e i conflitti che la circondano. Ma non mancano i casi analoghi altrove: il disastro della Brexit nel Regno Unito; la crisi di legittimità dell’Unione Europea e la disintegrazione dei partiti socialdemocratici e di centro-destra che l’hanno sostenuta; le crescenti fortune dei partiti razzisti e anti-immigrati in tutta l’Europa settentrionale e centro-orientale; e l’esplosione di forze autoritarie, alcune qualificabili come proto-fasciste, in America Latina, in Asia e nel Pacifico. La nostra crisi politica, se è questo che è, non è solo americana, ma globale.
A rendere plausibile questa affermazione è il fatto che, nonostante le loro differenze, tutti questi fenomeni condividono un tratto comune. Tutti comprendono un indebolimento drammatico, se non un vero e proprio crollo, dell’autorità delle classi politiche costituite e dei partiti. È come se masse di persone in tutto il mondo avessero smesso di credere del senso comune dominante che ha sostenuto l’autorità politica negli ultimi decenni. È come se avessero perso la fiducia nella buona fede delle élite e fossero alla ricerca di nuove ideologie, nuove organizzazioni, nuove leadership. Date le dimensioni del crollo, è probabile che si tratti di una coincidenza. Assumiamo, quindi, che siamo di fronte a una crisi politica globale.
Per quanto grande suoni quest’affermazione, è solo una parte della storia. I fenomeni appena evocati costituiscono la componente specificamente politica di una crisi più ampia e sfaccettata, che ha anche altre componenti – quella economica, quella ecologica e quella sociale – le quali, prese tutte insieme, formano una crisi generale. Ben lungi dall’essere meramente settoriale, la crisi politica non può essere compresa in maniera isolata rispetto alle situazioni di blocco a cui risponde in altre istituzioni, apparentemente non politiche. Negli Stati Uniti, queste situazioni di blocco includono la metastatizzazione della finanza, la proliferazione dei McJob precari nel settore dei servizi, l’esplosione del debito dei consumatori per permettere l’acquisto di merci a basso costo prodotte altrove, l’aumento congiunto delle emissioni carboniche, delle condizioni meteorologiche estreme e del negazionismo climatico, l’incarcerazione di massa su basi razziali e la violenza di polizia sistemica e lo stress crescente nella vita familiare e di comunità dovuto all’aumento dell’orario di lavoro e alla diminuzione del sostegno sociale. Insieme, queste forze hanno continuato a disintegrare il nostro ordine sociale per un bel po’ di tempo senza produrre un terremoto politico. Ora, in ogni caso, i giochi sono fatti. Nell’attuale rigetto diffuso per la solita politica, una crisi di sistema oggettiva ha trovato la sua voce politica soggettiva. La componente politica della nostra crisi generale è una crisi di egemonia.
Donald Trump è il simbolo perfetto di questa crisi egemonica. Ma non possiamo capire la sua ascesa se non chiariamo le condizioni che l’hanno resa possibile. E ciò significa identificare la visione del mondo che il trumpismo ha spodestato e mappare il processo attraverso cui si è sfaldata. Le idee indispensabili a questo scopo vengono da Antonio Gramsci. “Egemonia” è il suo termine per identificare il processo attraverso il quale una classe dominante naturalizza il suo dominio installando i presupposti della propria visione del mondo nel senso comune della società nel suo complesso. Il suo corrispondente organizzativo è il “blocco egemonico”: una coalizione di forze sociali disparate che la classe dominante assembla e attraverso cui afferma la propria leadership. Se sperano di mettere in discussione questi assetti, le classi dominate devono costruire un nuovo senso comune più persuasivo, o “controegemonia” e una nuova alleanza politica più potente, o “blocco controegemonico”.
A queste idee di Gramsci, ne dobbiamo aggiungere un’altra. Ogni blocco egemonica incarna una serie di assunti su cosa sia buono e giusto e cosa no. A partire almeno dalla metà del XX secolo, negli Stati Uniti e in Europa, l’egemonia capitalista è stata forgiata combinando due aspetti diversi di cosa sia buono e giusto – uno basato sulla distribuzione, l’altro sul riconoscimento. L’aspetto distributivo trasmette una visione di come la società dovrebbe allocare i beni divisibili, in particolare il reddito. Questo aspetto si rivolge alla struttura economica della società e, per quanto in maniera obliqua, alle sue divisioni di classe. L’aspetto di riconoscimento esprime il senso di come la società dovrebbe attribuire il rispetto e la stima, i marchi morali dell’appartenenza. Focalizzato sull’ordine di status della società, questo aspetto si riferisce alle sue gerarchie di status.
Insieme, distribuzione e riconoscimento costituiscono le componenti normative essenziali di cui sono fatte le egemonie. Mettendo quest’idea insieme a quelle di Gramsci, possiamo dire che ciò che ha reso possibile Trump e il trumpismo è stata la rottura di un precedente blocco egemonico, e il discredito del suo particolare nesso normativo di distribuzione e riconoscimento. Analizzando la costruzione e la rottura di questo nesso, possiamo chiarire non solo il trumpismo, ma anche le prospettive, post-Trump, per un blocco controegemonico che possa risolvere la crisi. Permettete che spieghi.
L’egemonia del neoliberismo progressista
Prima di Trump, il blocco egemonico che dominava la politica americana era il neoliberismo progressista. Potrebbe sembrare un ossimoro, ma è stata un’alleanza reale e potente tra due partner improbabili: da una parte, le correnti mainstream liberali dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, ambientalismo e diritti LGBTQ); dall’altra, i settori più dinamici, lussuosamente simbolici e finanziari dell’economia degli Stati Uniti (Wall Street, la Silicon Valley e Hollywood). A tenere insieme questa strana coppia era una particolare combinazione di visioni della distribuzione e del riconoscimento.
Il blocco neoliberista progressista teneva insieme un programma economico espropriativo e plutocratico con politiche di riconoscimento liberal-meritocratiche. La componente distributiva di questo amalgama era neoliberista. Determinate a liberare le forze del mercato dalla mano pesante dello stato e dal fardello delle politiche “tassa e spendi”, le classi che guidavano questo blocco miravano a liberalizzare e globalizzare l’economia capitalista. Ciò significava, in realtà, la finanziarizzazione: lo smantellamento delle barriere alla libera circolazione dei capitali e delle protezioni da essa; la deregulation bancaria e l’esplosione del debito predatorio; la deindustrializzazione, l’indebolimento dei sindacati e la diffusione del lavoro precario e malpagato. Queste politiche, comunemente associate a Ronald Reagan, ma sostanzialmente implementate e consolidate da Bill Clinton, hanno devastato gli standard di vita della classe operaia e della classe media, trasferendo ricchezza e valore verso l’alto – in particolare verso l’uno per cento, ovviamente, ma anche verso le fasce più alte delle classi professionali-manageriali.
I neoliberisti progressisti non hanno inventato questa politica economica. Quell’onore appartiene alla destra: ai suoi luminari intellettuali Friedrich Hayek, Milton Friedman e James Buchanan; ai suoi politici visionari, Barry Goldwater e Ronald Reagan; e ai suoi ricchi sostenitori, Charles e David Koch, tra gli altri. Ma la versione “fondamentalista” di destra del neoliberismo non poteva diventare egemonica in un paese il cui senso comune era ancora modellato sul pensiero del New Deal, sulla “rivoluzione dei diritti” e su una parte dei movimenti sociali discendenti dalla Nuova Sinistra. Perché il progetto neoliberista trionfasse, doveva essere riconfezionato, dotato di un appeal più ampio e collegato ad altri obiettivi di emancipazione, non economici. Solo una volta agghindata da progressista, una politica economica profondamente regressiva poteva diventare il centro dinamico di un nuovo blocco egemonico.
È toccato, quindi, ai “Nuovi Democratici”, il ruolo di apportare l’ingrediente essenziale: una politica di riconoscimento progressista. Attingendo alle forze progressiste delle società civile, hanno diffuso un ethos di riconoscimento che era superficialmente egualitario ed emancipatorio. Al centro di questo ethos c’erano ideali di “diversità”, “empowerment delle donne” e diritti LGBTQ; politiche post-razziali, multiculturalismo e ambientalismo. Questi ideali furono interpretati in una maniera limitata e specifica, che era perfettamente compatibile con la goldmansachsizzazione dell’economia degli Stati Uniti. Proteggere l’ambiente significava “carbon trading”. Promuovere la proprietà della casa significava mutui subprime messi insieme e rivenduti come titoli garantiti da mutui ipotecari. Uguaglianza significava meritocrazia.
La riduzione dell’uguaglianza alla meritocrazia ha avuto conseguenze particolarmente pesanti. Il programma neoliberista progressista per un giusto ordine di status non mirava ad abolire la gerarchia sociale ma a renderla “diversa”, a “dare potere” a donne “di talento”, persone di colore e minoranze sessuali di arrivare in alto. E quell’ideale era intrinsecamente di classe: mirato a far sì che individui “meritevoli” appartenenti a “gruppi sottorappresentati” potessero conseguire posizioni e redditi in maniera paritaria rispetto agli uomini bianchi della propria stessa classe. La variante femminista è significativa ma, tristemente, non unica. Basandosi sull’idea di “farsi avanti” e “rompere il soffitto di vetro”, le sue principali beneficiarie potevano essere solo quelle già in possesso del capitale sociale, culturale ed economico richiesto. Tutte le altre rimanevano nel seminterrato.
Per quanto distorta, la politica del riconoscimento è riuscita a sedurre correnti importanti dei movimenti sociali progressisti e a convincerle a entrare nel blocco egemonico. Certo, non tutte le femministe, gli antirazzisti, i multiculturalisti, e così via furono conquistati alla causa neoliberale progressista. Ma quelli che lo furono, coscienti o no, costituivano il segmento più grande e più visibile dei rispettivi movimenti, mentre quelli che resistevano venivano confinati ai margini. I progressisti, nel blocco neoliberista progressista, erano senza dubbio il partner minore, molto meno potenti dei loro alleati a Wall Street, a Hollywood e nella Silicon Valley. Eppure hanno portato in dote qualcosa di essenziale a questa relazione pericolosa: il carisma, un “nuovo spirito del capitalismo”. Emanando un’aura di emancipazione, questo nuovo “spirito” caricò l’attività economica neoliberista con un fremito di eccitazione. Ormai associato con il progressista e il liberatorio, con il cosmopolita e il moralmente avanzato, ciò che era fosco divenne elettrizzante. In gran parte grazie a questo ethos, le politiche che favorivano una vasta redistribuzione della ricchezza e del reddito verso l’alto acquisirono una patina di legittimità.
Per conquistare l’egemonia, però, il blocco neoliberista progressista emergente doveva sconfiggere due diversi rivali. Prima, doveva sbaragliare i resti, non inconsistenti, della coalizione del New Deal. Anticipando il “New Labour” di Tony Blair, l’ala clintoniana del Partito Democratico disarticolò in silenzio quella vecchia alleanza. Al posto del blocco storico che aveva unito con successo le organizzazioni del lavoro, gli immigrati, gli afroamericani, le classi medie urbane e alcune fazioni del grande capitale industriale per alcuni decenni, forgiarono una nuova alleanza di imprenditori, banchieri, abitanti dei sobborghi, “lavoratori simbolici”, nuovi movimenti sociali, ispanici e giovani, trattenendo il sostegno degli afroamericani, che pensavano di non avere nessun altro posto dove andare. Durante la campagna per la candidatura alle presidenziali da parte dei democratici, nel 1991/’92, Bill Clinton si conquistò la scena predicando bene diversità, multiculturalismo e diritti delle donne, mentre si stava preparando a razzolare male con Goldman Sachs.
La sconfitta del neoliberismo reazionario
Il neoliberismo progressista doveva sconfiggere anche un secondo concorrente, con cui condivideva più di quanto apparisse. L’antagonista in questo caso era il neoliberismo reazionario. Situato principalmente nel Partito Repubblicano e meno coerente del proprio rivale dominante, il secondo blocco offriva un secondo nesso di distribuzione e riconoscimento. Nonostante sostenesse di voler favorire le piccole imprese e la manifattura, il vero progetto economico del neoliberismo reazionario si basava sul sostegno alla finanza, alla produzione militare e alle attività estrattive, tutto sostanzialmente a beneficio dell’uno per cento globale. A cercare di rendere tutto ciò accettabile per la base che cercava di mettere insieme, era una visione esclusiva del giusto ordine di status: etnonazionalista, anti-immigrati, e pro-cristiano, se non apertamente razzista, patriarcale e omofobo.
Questa formula ha permesso a cristiani evangelici, bianchi del sud, americani dell’America rurale e di provincia e strati della classe operaia bianca delusa di coesistere per un paio di decenni, per quanto non senza difficoltà, con libertari, sostenitori del Tea Party, la Chamber of Commerce e i fratelli Koch, più un po’ di banchieri, palazzinari, magnati dell’energia, capitalisti d’assalto e speculatori finanziari. Al di là dell’enfasi su un settore o su un altro, sulle grandi questioni della politica economica, il neoliberismo reazionario non differiva sostanzialmente dal suo rivale neoliberista-progressista. Chiaro, i due partiti discutevano un po’ sulle “tasse ai ricchi”, con i democratici che normalmente cedevano. Ma entrambi i blocchi sostenevano il “libero mercato”, le basse tasse sulle imprese, la diminuzione dei diritti dei lavoratori, la supremazia dell’interesse degli azionisti, il mercato “winner takes all” e la deregulation finanziaria. Entrambi i blocchi hanno eletto leader che cercavano “grandi accordi” che miravano al taglio del welfare. Le differenze chiave tra di loro si basavano sul riconoscimento, non sulla distribuzione.
Il neoliberismo progressista ha in gran parte vinto anche quella battaglia, ma a un prezzo. I centri manifatturieri in declino, specialmente la cosiddetta “Rust Belt”, furono sacrificati. Quella regione, insieme ai centri industriali più recenti al sud, fu in particolare danneggiata da tre politiche di Bill Clinton: il NAFTA, l’ingresso della Cina nel WTO (giustificato, in parte, come promozione della democrazia) e l’abolizione della legge Glass-Steagall. Insieme, queste politiche e quelle che seguirono distrussero le comunità che si erano basate sulla manifattura. Nel corso dei due decenni di egemonia neoliberista progressista, nessuno dei due grandi blocchi fece alcun serio sforzo per proteggere quelle comunità. Per i neoliberisti, le loro economie non erano competitive e dovevano subire la “correzione del mercato.” Per i progressisti, le loro culture erano ferme nel passato, legate a valori provinciali obsoleti che sarebbero presto scomparsi in un nuovo ordine cosmopolita. Su nessuno dei due terreni – distribuzione o riconoscimento – il neoliberismo progressista poteva trovare una ragione per difendere la “Rust Belt” e le comunità manifatturiere del sud.
Il vuoto egemonico e la lotta per colmarlo
L’universo politico che Trump ha rovesciato era piuttosto angusto. Era costruito sull’opposizione tra due versioni del neoliberismo, distinte principalmente sull’asse del riconoscimento. Chiaro, uno poteva scegliere tra multiculturalismo ed etnonazionalismo. Ma gli toccavano, in un modo o nell’altro, la finanziarizzazione e la deindustrializzazione. Dato che il menù era limitato al neoliberismo progressista e a quello reazionario, non c’era alcuna forza a opporsi alla decimazione degli standard di vita della classe operaia e della classe media. I progetti anti-neoliberisti furono nettamente marginalizzati, se non semplicemente esclusi dalla sfera pubblica.
Ciò lasciò un segmento considerevole dell’elettorato degli Stati Uniti, vittima della finanziarizzazione e della globalizzazione dei capitali, senza una casa politica naturale. Dato che nessuno dei grandi blocchi parlava per loro, c’era uno spazio vuoto nell’universo politico americano: una zona vuota, non occupata da nessuno, dove una proposta politica anti-neoliberista e a favore delle famiglie della classe operaia avrebbe potuto mettere radici. Dato il ritmo accelerato della deindustrializzazione, la proliferazione dei McJob precari e a basso reddito, la crescita del debito predatorio e il conseguente declino negli standard di vita dei due terzi più in basso degli americani, era solo questione di tempo che qualcuno si mettesse a occupare quello spazio, colmando il vuoto.
Alcuni pensarono che quel momento fosse arrivato nel 2007/2008. Un mondo ancora barcollante dopo uno dei peggiori disastri di politica estera della storia degli Stati Uniti fu costretto ad affrontare la peggior crisi finanziaria dei tempi della Grande Depressione – e un quasi collasso dell’economia globale. La solita politica fu messa da parte. Un afroamericano che parlava di “speranza” e “cambiamento” ascese alla presidenza, promettendo di trasformare non solo le politiche ma l’intera mentalità della politica americana. Barack Obama avrebbe potuto cogliere l’opportunità e mobilitare un supporto di massa per una grande svolta dal neoliberismo, anche di fronte all’opposizione del congresso. Invece, affidò l’economia alle stesse forze di Wall Street che l’avevano quasi distrutta. Stabilendo come obiettivo la “ripresa” invece che una riforma strutturale, Obama elargì giganteschi salvataggi alle banche che erano “troppo grandi per fallire”, ma non riuscì a fare niente di vagamente paragonabile per le loro vittime: i dieci milioni di americani che avevano perso la casa durante la crisi. L’unica eccezione fu la riforma sanitaria, che fornì un beneficio materiale reale a una parte della classe operaia degli Stati Uniti. Ma fu l’eccezione che confermava la regola. A differenza del passaggio a una qualche forma di servizio sanitario pubblico, a cui Obama rinunciò prima ancora che il negoziato sulla riforma iniziasse, il suo approccio rafforzò proprio le divisioni all’interno della classe operaia che si sarebbero dimostrate così gravide di conseguenze. Alla fine, il segno prevalente della sua presidenza fu il mantenimento dello status quo neoliberista progressista nonostante la sua crescente impopolarità.
Un’altra chance di riempire il vuoto egemonico arrivò nel 2011, con l’eruzione di Occupy Wall Street. Stanco di aspettare un cambio di rotta da parte del sistema politico, e deciso a prendere in mano le cose direttamente, un segmento della società civile occupò le piazze in tutto il paese a nome del “99 per cento”. Denunciando un sistema che rapinava la vasta maggioranza per arricchire l’uno per cento più ricco, gruppi relativamente piccoli di giovani manifestanti raccolsero un vasto consenso – fino al 60 per cento degli americani, secondo alcuni sondaggi – in particolare tra i sindacati sotto assedio, gli studenti indebitati, le famiglie della classe media in difficoltà e il precariato crescente.
Gli effetti politici di Occupy, d’altra parte, furono limitati, e servirono sostanzialmente a rieleggere Obama. Fu adottando la retorica del movimento che il presidente uscente riuscì a raccogliere il sostegno di molti che sarebbero finiti a votare Trump nel 2016, e di conseguenza a sconfiggere Romney nel 2012. Una volta vinto il secondo mandato, però, la neonata coscienza di classe del presidente evaporò in fretta. Confinata la ricerca del “cambiamento” alla firma di decreti presidenziali, rinunciò sia a perseguire le malefatte dei ricchi sia a usare il pulpito della Casa Bianca per mobilitare il popolo americano contro Wall Street. Pensando che la tempesta fosse passata, le classi politiche degli Stati Uniti fecero finta di niente. Continuando a rispettare il consenso neoliberista, non riuscirono a vedere in Occupy le prime scosse del terremoto in arrivo.
Il terremoto arrivò nel 2015/2016, con la trasformazione del malcontento che sobbolliva da tempo in una crisi strutturale dell’autorità politica. In quella fase elettorale, sembrava che entrambi i grandi blocchi politici stessero collassando. Sul lato repubblicano, Trump, facendo campagna su temi populisti, sconfisse facilmente (come continua a ricordarci) i suoi sedici sventurati rivali alle primarie, compresi quelli che erano stati accuratamente selezionati dai capi del partito e dai grandi finanziatori. Sul lato democratico, Bernie Sanders, uno che si definiva apertamente un socialista democratico, sfidò in maniera sorprendentemente seria l’erede designata di Obama, che fu costretta a utilizzare tutti i trucchi e le leve del potere del partito per liberarsene. Da entrambe le parti, i copioni tradizionali furono rovesciati e una coppia di outsider occupò il vuoto egemonico e si mise a riempirlo di nuovi contenuti politici.
Sia Sanders sia Trump attaccarono duramente le politiche distributive neoliberiste. Ma le loro politiche di riconoscimento differivano nettamente. Mentre Sanders denunciava “l’economia truccata” con accenti universalisti ed egualitari, Trump prendeva in prestito la stessa espressione ma colorandola a tinte nazionaliste e protezioniste. Spingendo forte sul pedale dell’esclusione, trasformò l’armamentario esistente in un arsenale di razzismo, misoginia, islamofobia, omofobia e transfobia e sentimento anti-immigrati. La “classe operaia” a cui la sua retorica si rivolgeva era bianca, etero, maschia e cristiana, basata sui settori dell’estrazione mineraria, delle trivellazioni, delle costruzioni e dell’industria pesante. Al contrario, la classe operaia che Sanders corteggiava era ampia ed espansiva, comprendendo non solo i lavoratori delle fabbriche della “Rust Belt” ma anche quelli del pubblico impiego e dei servizi, le donne, gli immigrati e le persone di colore.
In realtà, il contrasto tra questi due ritratti della “classe operaia” era in gran parte retorico. Nessuno dei due ritratti corrisponde precisamente alla base elettorale di ognuno dei due. Nonostante il margine di vittoria di Trump sia arrivato dagli ex centri manifatturieri che avevano votato per Obama nel 2012 e per Sanders alle primarie democratiche del 2015, i suoi elettori includevano anche i soliti sospetti repubblicani – compresi libertari, imprenditori e altri poco interessati al populismo economico. Allo stesso modo, gli elettori più affidabili di Sanders erano i giovani laureati americani. Ma non è questo il punto. Come proiezione retorica di una controegemonia possibile, era la sua visione espansiva della classe operaia americana ciò che distingueva più nettamente il populismo di Sanders da quello di Trump.
Entrambi gli outsider tratteggiavano gli elementi di base di un nuovo senso comune, ma ognuno lo faceva a proprio modo. La retorica della campagna di Trump suggeriva un nuovo blocco proto-egemonico, che possiamo chiamare populismo reazionario. Dava l’idea di voler combinare politiche di riconoscimento iper-reazionarie con politiche di distribuzione populiste: di fatto, il muro sul confine messicano, più grandi investimenti in infrastrutture. Il blocco che Sanders proponeva, invece, era quello del populismo progressista. Cercava di mettere insieme politiche di riconoscimento inclusive con politiche di distribuzione a favore delle famiglie lavoratrici: la riforma della giustizia penale più la sanita pubblica per tutti; la giustizia riproduttiva più l’accesso gratuito all’università; i diritti LGBTQ più lo spacchettamento delle grandi banche.
Specchietti per le allodole
Nessuno di questi scenari si è concretamente realizzato, in ogni caso. La sconfitta di Sanders contro Hillary Clinton rimosse l’opzione populista progressista dalle schedi elettorali, come ampiamente previsto. Ma il risultato della conseguente vittoria di Trump fu più inaspettato, almeno per alcuni. E il nuovo presidente, ben lungi da governare come un populista reazionario, ha attivato la solita tattica degli specchietti per le allodole, abbandonando le politiche distributive populiste che la sua campagna aveva promesso. Certo, ha cancellato la Trans-Pacific Partnership. Ma ha temporeggiato sul NAFTA e non ha mosso un dito contro Wall Street. E non ha fatto un solo passo serio verso l’implementazione di progetti infrastrutturali pubblici di grande scala per creare occupazione; per quanto riguarda i suoi sforzi per incoraggiare la manifattura, sono stati confinati ad alcuni dimostrazioni simboliche di propaganda e di alleggerimento normativo per l’industria del carbone, i cui vantaggi si sono dimostrati in gran parte fittizi. E invece di proporre una riforma fiscale a vantaggio delle famiglie della classe operaia e della classe media, ha deciso di sostenere la solita vulgata repubblicana, pensata per redistribuire ancora più ricchezza verso l’uno per cento (compresa la famiglia Trump). Come quest’ultimo punto dimostra, le azioni del presidente sul fronte distributivo hanno incluso dosi pesanti di capitalismo clientelare e di perseguimento dell’interesse personale. Ma se Trump non rappresenta gli ideali hayekiani della ragione economica, la nomina di un altro ex dirigente di Goldman Sachs al Tesoro assicura che il neoliberismo continua a essere in vigore dove conta davvero.
Abbandonate le politiche di distribuzione populiste, Trump si è buttato in pieno sulle politiche di riconoscimento reazionarie, che sono state rese incredibilmente più intense e feroci. La lista delle sue provocazioni e azioni a sostegno di gerarchie di status odiose è lunga e dà i brividi: il blocco ai visti nelle sue varie versioni, tutte mirate verso paesi a maggioranza musulmana, malcelate dalla successiva e cinica aggiunta del Venezuela; l’attacco ai diritti civili al ministero della giustizia (che ha abbandonato l’uso delle sentenze consensuali) e al ministero del lavoro (che ha smesso di impedire le politiche discriminatorie alle aziende che lavorano per lo stato); il rifiuto di difendere le azioni legali per i diritti LGBTQ; l’abolizione della copertura assicurativa obbligatoria sui contraccettivi; l’arretramento sulle protezioni contro la discriminazione contro le donne nel sistema educativo, attraverso il taglio del personale addetto; le dichiarazioni pubbliche di sostegno al maltrattamento dei sospettati da parte della polizia, a personaggi come “lo sceriffo Joe” che ignorano le regole dello stato di diritto, e alle “brave persone” tra i suprematisti bianchi che hanno dato spettacolo a Charlottesville. Il risultato non è semplicemente il solito conservatorismo repubblicano, ma una politica di riconoscimento iper-reazionaria.
In fin dei conti, le politiche del presidente Trump sono sostanzialmente diverse dalle promesse di campagna elettorale del candidato Trump. Non solo il suo populismo economico è scomparso, ma la sua ricerca di capri espiatori è diventata ancora più feroce. Quello per cui i suoi sostenitori hanno votato, insomma, non è quello che hanno avuto. L’esito non è un populismo reazionario, ma un neoliberismo iper-reazionario.
Il neoliberismo iper-reazionario di Trump non costituisce un nuovo blocco egemonico, in ogni caso. Al contrario: è caotico, instabile e fragile. Ciò è dovuto in parte alla particolare psicologia personale del suo portabandiera e in parte alla sua codipendenza disfunzionale con l’establishment del Partito Repubblicano, che ha provato e non è riuscito a riaffermare il proprio controllo e ora sta prendendo tempo mentre cerca un’exit strategy. Non possiamo sapere ora esattamente come andrà a finire, ma sarebbe sciocco escludere la possibilità che il Partito Repubblicano si scinda. In un caso o nell’altro, il neoliberismo iper-reazionario non offre alcuna prospettiva di egemonia sicura.
Ma c’è un problema più grave. Eliminando il lato economico-populista della sua campagna, il neoliberismo economico di Trump cerca in pratica di ristabilire il vuoto egemonico che ha contribuito a far esplodere nel 2016. Ma non ci riesce. Ora che il gatto populista è uscito dal sacco, è difficile pensare che la porzione operaia della base di Trump si accontenterà a lungo delle politiche di (non) riconoscimento.
Dall’altra parte, nel frattempo, “la resistenza” si organizza. Ma l’opposizione è frammentata, comprendendo sia pasdaran di Hillary Clinton sia fedelissimi di Bernie Sanders sia molte persone che potrebbero andare da una parte o dall’altra. A complicare lo scenario c’è una serie di gruppi emergenti le cui apparenze militanti hanno attratto i grandi finanziatori nonostante (o a causa di) la vaghezza delle loro concezioni programmatiche.
Particolarmente preoccupante è la riemersione di una vecchia tendenza della sinistra: contrapporre la razza alla classe. Alcuni militanti della resistenza stanno proponendo di riorientare la politica del Partito Democratico intorno all’opposizione al suprematismo bianco, concentrando gli sforzi sulla conquista del sostegno di neri e ispanici. Altri difendono una strategia centrata sulla classe, mirata a riconquistare le comunità della classe operaia bianca che sono passate a Trump. Entrambi i punti di vista sono problematici nella misura in cui considerano l’attenzione alla classe o alla razza come intrinsecamente antitetica, un gioco a somma zero. In realtà, entrambi quegli assi di ingiustizia possono essere attaccati contemporaneamente, e così si deve fare. Nessuno dei due può essere sconfitto se l’altro ha successo.
Nel contesto attuale, in ogni caso, le proposte di disinteressarsi della questione di classe sono particolarmente pericolose: potrebbero congiungersi con gli sforzi dell’ala clintoniana di tornare allo status quo ante in una nuova forma. In quel caso, il risultato sarebbe una nuova versione del neoliberismo progressista – una che combina il neoliberismo sul fronte distributivo con politiche di riconoscimento ispirate all’antirazzismo militante. Questa prospettiva dovrebbe preoccupare le forze anti-Trump. Da una parte, spingerebbe molti potenziali alleati in direzione opposta, confermando la narrazione di Trump e rinforzando il suo consenso. Dall’altra, gli darebbe una mano a sopprimere le alternative al neoliberismo – e quindi a ristabilire il vuoto egemonico. Ma ciò che ho detto prima su Trump vale anche qui: il gatto populista è fuori dal sacco. Tornare al neoliberismo progressista, in qualsiasi modo, significa ricreare – o addirittura esacerbare – proprio le condizioni che hanno creato Trump. E ciò significa preparare il terreno per nuovi Trump – ogni volta più feroci e pericolosi.
Fenomeni morbosi e prospettive controegemoniche
Per tutte queste ragioni, né un redivivo neoliberismo progressista né un nuovo neoliberismo iper-reazionario sono buoni candidati per l’egemonia politica nel prossimo futuro. I legami che tenevano insieme ognuno di questi blocchi si sono irrimediabilmente sfilacciati. Inoltre, nessuno dei due è oggi nella posizione di poter modellare un nuovo senso comune. Nessuno dei due è in grado di offrire una rappresentazione autorevole della realtà sociale, una narrazione in cui un ampio spettro di attori sociali possa ritrovarsi. Allo stesso modo, nessuna delle due varianti del neoliberismo può affrontare in maniera efficace gli oggettivi blocchi di sistema che sono alla base della crisi egemonia. Dato che entrambi sono legati alla finanza globale, nessuno dei due può mettere in discussione la finanziarizzazione, la deindustrializzazione o la globalizzazione dei capitali. Nessuno dei due può proporre rimediare al declino degli standard di vita o all’esplosione del debito, al cambiamento climatico o al “deficit di cura”, o allo stress intollerabile che colpisce la vita di comunità. Riportare al potere uno di questi due blocchi significa mettere in conto non solo una continuazione, ma un’intensificazione dell’attuale crisi.
Quindi, cosa ci possiamo aspettare nei prossimi anni? Senza un’egemonia stabile, siamo di fonte a un interregno instabile e alla continuazione della crisi politica. In questa situazione, le parole di Antonio Gramsci suonano vere: “il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.”
A meno che, ovviamente, non esista un valido candidato per una controegemonia. Il più probabile tra questi candidati è una qualche forma di populismo. Può il populismo essere ancora un’opzione – se non immediatamente, almeno nel lungo termine? A parlare a favore di questa possibilità è il fatto che tra i sostenitori di Sanders e quelli di Trump, qualcosa di molto vicino a una massa critica di elettori degli Stati Uniti ha rigettato la politica di distribuzione neoliberista nel 2015/2016. La domanda cruciale è se questa massa possa essere fusa insieme in un nuovo blocco controegemonico. Perché ciò avvenga, i sostenitori working-class di Sanders e Trump dovrebbero arrivare a considerarsi gli uni gli altri come alleati – vittime diverse di una stessa “economia truccata” che potrebbero cercare di cambiare insieme.
Il populismo reazionario, anche senza Trump, non è una base adatta a quest’alleanza. La sua politica di riconoscimento gerarchica ed esclusiva è inaccettabile per ampi settori della classe operaia e della classe media degli Stati Uniti, in particolare per famiglie che dipendono dal lavoro nei servizi, nell’agricoltura, nel lavoro domestico e nel settore pubblico, i cui ranghi comprendono moltissime donne, immigrati e persone di colore. Solo una politica di riconoscimento inclusiva ha una possibilità realistica di portare quelle forze sociali indispensabili a partecipare a un’alleanza con altri settori della classe operaia e della classe media, comprese le comunità storicamente associate con la manifattura, l’estrazione mineraria e l’edilizia.
Ciò fa del populismo progressista il candidato più adatto per un nuovo blocco controegemonico. Combinando redistribuzione egualitaria e riconoscimento non gerarchico, questa opzione ha quantomeno una possibilità realistica di unire l’intera classe operaia. Anzi, potrebbe posizionare quella classe, intesa in senso ampio, come la forza leader all’interno di un’alleanza che includa anche segmenti rilevanti dei giovani, della classe media e degli strati professionali-manageriali.
Allo stesso tempo, ci sono molti indizi in senso contrario, rispetto alla possibilità di un’alleanza tra i populisti progressisti e gli strati popolari che hanno votato per Trump alle ultime elezioni. Il principale tra gli ostacoli è l’aumento delle divisioni nella società, perfino degli odi, che sobbollivano da lungo tempo ma che recentemente hanno raggiunto livelli mai visti grazie a Trump che, come ha detto con perspicacia David Brooks, sembra avere “fiuto per ogni ferita aperta nel corpo politico”, e non ha alcuno scrupolo che gli impedisca di “mettere in ognuna il dito e squarciarla”. Il risultato è un ambiente tossico che sembra confermare il punto di vista di alcuni progressisti secondo cui tutti gli elettori di Trump sono “deplorevoli” – irredimibili razzisti, misogini e omofobi. Allo stesso modo viene rafforzata anche la visione opposta, di molti populisti reazionari, secondo cui tutti i progressisti sono incorreggibili moralizzatori ed elitisti spocchiosi che li guardano dall’alto in basso sorseggiando il loro latte macchiato e facendo soldi a palate.
La strategia della separazione
Le prospettive del populismo progressista negli Stati Uniti dipendono oggi dalla lotta contro entrambe queste visioni. È necessaria una strategia della separazione, che faccia avvenire due grandi scissioni. In primo luogo, le fasce meno privilegiate di donne, immigrati e persone di colore devono essere allontanate dalle femministe del “farsi avanti”, dagli antirazzisti e antiomofobi della meritocrazia e dai cantori della diversità aziendalista e del capitalismo verde che hanno dirottato le loro istanze, distorcendole in modo da renderle compatibili col neoliberismo. Questo è l’obiettivo di una recente iniziativa femminista, che cerca di sostituire il femminismo del “farsi avanti” con un “femminismo per il 99 per cento”. Altri movimenti emancipatori dovrebbero copiare questa strategia.
In secondo luogo, le comunità working-classe della Rust Belt, del sud e delle aree rurali devono essere convinte a rompere con i loro attuali alleati cripto-neoliberisti. Il trucco è convincerli che le forze che promuovono il militarismo, la xenofobia e l’etnonazionalismo non hanno alcuna intenzione di fornire loro i prerequisiti materiali necessari a una buona vita, mentre un blocco populista progressista lo potrebbe fare. In questo mondo, si potrebbero separare gli elettori di Trump che potrebbero rispondere a un appello del genere dai veri e propri razzisti ed etnonazionalisti della alt-right. Dire che i primi sono molti più dei secondi non significa negare che i movimenti populisti reazionari attingano a mani basse da una retorica ben precisa e abbiano dato coraggio ai gruppi, prima marginali, dei veri suprematisti bianchi. Ma significa smentire la conclusione superficiale che la stragrande maggioranza degli elettori populisti reazionari siano destinati a essere per sempre sordi ad appelli formulati a nome di una classe operaia intesa in senso espansivo come quella evocata da Bernie Sanders. Dire ciò non significa semplicemente sbagliarsi empiricamente ma significa anche dire una cosa controproducente, destinata a diventare una profezia che si auto-avvera.
Fatemi essere chiara. Non sto suggerendo che un blocco populista progressista dovrebbe zittire le istanze pressanti legate al razzismo, il sessismo, all’omofobia, all’islamofobia e alla transfobia. Al contrario, la lotta contro questi problemi dev’essere centrale per il blocco populista progressista. Ma è controproducente affrontarli attraverso il paternalismo moralista, come fa il neoliberismo progressista. Quell’approccio sottintende una visione vuota e inadeguata di quelle ingiustizie, che esagera di gran lunga quanto il problema sia dentro la testa della gente e ignora invece il ruolo delle forze strutturali-istituzionali che le sostengono.
Il punto è particolarmente chiaro e importante nel caso della razza. L’ingiustizia razziale negli Stati Uniti di oggi non è una questione di atteggiamenti offensivi o comportamenti sbagliati, sebbene questi sicuramente esistano. Il problema di fondo, piuttosto, è l’impatto specifico che hanno avuto rispetto alla razza la deindustrializzazione e la finanziarizzazione nel periodo dell’egemonia neoliberista progressista, filtrato attraverso le lunghe storie dell’oppressione sistemica. In questo periodo, gli americani di colore, che per lungo tempo non avevano avuto accesso al credito, erano stati confinati ad abitazioni di livello inferiore e segregate e ricevevano salari troppo bassi per accumulare risparmi, sono stati sistematicamente presi di mira dai venditori di mutui subprime, e di conseguenza hanno visto il tasso più alto di pignoramenti nell’intero paese. In questo periodo, inoltre, le città e i quartieri abitati dalle minoranze, che per lungo tempo erano stati sistematicamente privati di risorse pubbliche, sono stati devastati dalla chiusura delle fabbriche nei centri manifatturieri in declino; la perdita delle fabbriche non si è fatta sentire solo in termini di posti di lavoro, ma anche di entrate fiscali, che ha privato queste comunità dei fondi necessari per scuole, ospedali e manutenzione delle infrastrutture fondamentali, portando in alcuni casi a disastri come quello di Flint – e, in un contesto diverso, quello della Lower Ninth Ward di New Orleans. Infine, i neri che a lungo erano stati soggetti a condanne penali discriminatorie e carcere duro, lavoro coatto e violenza socialmente tollerata, anche da parte della polizia, in questo periodo sono stati massicciamente arruolati in un “complesso carcerario-industriale” tenuto in piena attività dalla “guerra alle droghe” che ha preso di mira il possesso di crack e da tassi sproporzionatamente alti di disoccupazione nelle minoranze etniche, tutti processi derivanti dai “risultati” approvati in maniera bipartisan dal Congresso e in gran parte orchestrati da Bill Clinton. Non c’è bisogno di aggiungere che, per quanto sia stata d’ispirazione, la presenza di un afroamericano nella Casa Bianca non ha inciso minimamente su questi processi.
E come avrebbe potuto? I fenomeni appena citati mostrano quando profondamente il razzismo sia ancorato nella società capitalista contemporanea – e quanto il moralismo neoliberista progressista sia stato incapace di affrontarlo. Rivelano inoltre che le basi strutturali del razzismo hanno tanto a che vedere con la classe e la politica economica quanto ne hanno con lo status e con il (non) riconoscimento. Allo stesso modo, rendono chiaro che le forze che stanno distruggendo le opportunità di vita delle persone di colore sono parte dello stesso complesso dinamico a cui appartengono quelle che stanno distruggendo le opportunità di vita dei bianchi – anche se alcuni dettagli differiscono. L’effetto finale è lo svelamento dell’inestricabile interconnessione tra razza e classe nel capitalismo finanziario contemporaneo.
Un blocco populista progressista può fare di queste analisi i propri punti di riferimento. Rinunciando all’accento sugli atteggiamenti personali che caratterizzava il neoliberismo progressista, deve concentrare i propri sforzi sulle basi strutturali-istituzionali della società contemporanea. Allo stesso modo, deve mettere in evidenza le radici comuni delle ingiustizie di classe e di status nel capitalismo finanziario. Concependo questo sistema come un’unica totalità sociale integrata, deve connettere le sofferenze subite dalle donne, dagli immigrati, dalle persone di colore e dalle persone LGBTQ con quelle sentite dagli strati working-class ora attratti dal populismo di destra. In questo modo, può porre le basi per una nuova potente coalizione tra tutti quelli che Trump e i suoi omologhi stanno tradendo – non solo gli immigrati, le femministe e le persone di colore che già si oppongono al suo neoliberismo iper-reazionario, ma anche gli strati della classe operaia bianca che l’hanno sostenuto finora. Raccogliendo ampi segmenti dell’intera classe operaia, questa strategia può avere la possibilità di vincere. A differenza di qualsiasi altra delle opzioni considerate, il populismo progressista ha il potenziale, almeno in astratto, per diventare in futuro un blocco controegemonico relativamente stabile.
Ma a favore del populismo progressista non c’è solo il suo potenziale soggettivo di successo. A differenza dei suoi rivali, ha anche l’ulteriore vantaggio di essere in grado, almeno in astratto, di affrontare il lato reale e oggettivo della nostra crisi. Lasciate che mi spieghi.
Come ho sottolineato all’inizio, la crisi egemonica analizzata qui è solo una componente di una crisi più ampia, che comprende molte altre component: quella ecologica, quella economica e quella sociale. Si tratta del corrispondente soggettivo di una oggettiva crisi di sistema, a cui risponda e da cui non può essere separata. Questi due lati della crisi – uno soggettivo, l’altro oggettivo – si tengono, e nessuno dei due può resistere senza l’altro. Nessuna risposta soggettiva, d’altra parte, per quanto apparentemente suggestiva, può assicurare una controegemonia duratura se non offre la prospettiva di una soluzione reale ai problemi oggettivi su cui si basa.
Il lato oggettivo della crisi non è semplicemente una serie di problemi isolati. Ben lungi dall’essere una pluralità dispersa, le sue diverse componenti sono interconnesse, e condividono una fonte comune. L’oggetto alla base della nostra crisi generale, ciò che produce le sue molteplici instabilità, è la forma attuale del capitalismo – globalizzato, neoliberista, finanziarizzato. Come ogni altra forma di capitalismo, non è semplicemente un sistema economico, ma qualcosa di più grande, un ordine sociale istituzionalizzato. In quanto tale, include una serie di condizioni non economiche di fondo che sono indispensabili all’economia capitalista: per esempio, le attività non pagate di riproduzione sociale, che assicurino l’offerta di lavoro salariato per la produzione economica; un apparato organizzato di potere pubblico (leggi, polizia, agenzie di regolamentazione e capacità di indirizzo) che garantisca l’ordine, la prevedibilità e le infrastrutture che sono necessarie a sostenere l’accumulazione; e, infine, un’organizzazione relativamente sostenibile della nostra interazione metabolica con il resto della natura, che assicuri le forniture essenziali di energia e materie prime per la produzione di merci, oltre ovviamente a un pianeta abitabile che possa sostenere la vita.
Il capitalismo finanziario rappresenta una forma storicamente determinate di organizzare il rapporto tra un’economia capitalista e queste indispensabili condizioni di fondo. È una forma profondamente predatoria ed instabile di organizzazione sociale, che libera l’accumulazione di capitale proprio da quei vincoli (politici, ecologici, sociali, morali) che sono necessari a sostenerla nel tempo. Liberata da questi vincoli, l’economia del capitalismo consuma le sue stesse condizioni di possibilità. È come una tigre che si mangia la coda. Dato che la vita sociale in quanto tale è sempre più economicizzata, la ricerca del profitto a ogni costo destabilizza le forme stesse della riproduzione sociale, la sostenibilità ecologica e il potere pubblico di cui ha bisogno. Visto da questo punto di vista, il capitalismo finanziarizzato è una formazione sociale intrinsecamente portata alla crisi. La crisi che abbiamo di fronte oggi è l’espressione sempre più acuta della tendenza all’auto-destabilizzazione che si porta dentro.
Questo è il lato oggettivo della crisi: il corrispondente strutturale al crollo egemonico analizzato qui. Oggi, quindi, entrambi i poli della crisi – uno oggettivo, l’altro soggettivo – si presentano nella propria forma più compiuta. E, come è già stato notato, non possono stare in piedi l’uno senza l’altro. Per risolvere la crisi oggettiva è necessaria una trasformazione strutturale complessiva del capitalismo finanziarizzato: un nuovo modo di mettere in relazione economica e politica, produzione e riproduzione, società umana e natura non umana. Il neoliberismo, in qualsiasi forma, non è la soluzione ma il problema.
Il tipo di cambiamento di cui abbiamo bisogno può venire solo da un’altra parte, da un progetto che è almeno anti-neoliberista, se non anticapitalista. Un progetto del genere può diventare una forza storica solo una volta incarnato in un blocco controegemonico. Per quanto distante la prospettiva possa sembrare ora, la nostra migliore chance per una soluzione sia soggettiva sia oggettiva è il populismo progressista. Ma anche quello potrebbe non essere un punto di arrivo stabile. Il populismo progressista potrebbe finire per essere una transizione – una fermata sulla rotta verso una nuova forma di società post-capitalista.
A prescindere dalla nostra incertezza sul punto di arrivo, una cosa è chiara. Se non perseguiamo quest’opzione ora, prolungheremo l’attuale interregno. E ciò significa condannare la gente che lavora di qualsiasi opinione e di qualsiasi colore all’aumento dello stress e al peggioramento della salute, all’esplosione del debito e al superlavoro, all’apartheid di classe e all’insicurezza sociale. Significa immergere queste persone in un mare ancora più vasto di fenomeni morbosi – negli odi nati dal risentimento ed espressi nella ricerca di capri espiatori, nelle esplosioni di violenza seguite dalle ondate di repressione, in un mondo feroce da cane-mangia-cane in cui le solidarietà si riducono fino a svanire. Per evitare questo destino, dobbiamo rompere definitivamente con l’economia neoliberista e con le varie politiche di riconoscimento che l’hanno sostenuta – mettendo da parte non solo l’etnonazionalismo esclusivo ma anche l’individualismo liberal-meritocratico. Solo tenendo insieme politiche di distribuzione solidamente egualitarie e politiche di riconoscimento sostanzialmente inclusive e di classe, possiamo costruire un blocco controegemonico che ci possa portare oltre l’attuale crisi verso un mondo migliore.
* Questo articolo è stato pubblicato su American Affairs Volume I, Number 4 (Winter 2017): 46–64. Traduzione di Lorenzo Zamponi per “Il Corsaro” e “Senso Comune”. Di Nancy Sanders sul nostro sito abbiamo tradotto La fine del neoliberismo progressista